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Il 23 agosto del 2007 moriva a Roma Bruno Trentin. Chi scrive ha lavorato con lui – in diverse circostanze – per quasi 30 anni, sempre apprezzandone le qualità che ne facevano non solo un grande leader sindacale, ma anche un fine intellettuale, una persona colta, curiosa, attenta ai cambiamenti, coerente e corretta. Del resto, il padre Silvio, precursore negli studi di diritto amministrativo, era appartenuto a quella piccola schiera di docenti universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo. Per questo motivo, perse la cattedra e dovette emigrare in Francia dove Bruno nacque e trascorse l’adolescenza e la prima giovinezza.
Combattente partigiano nelle formazioni di Giustizia e libertà, dopo un periodo di formazione post laurea ad Harvard, negli Usa, fu chiamato a far parte dell’Ufficio studi della Cgil dove fornì un significativo contributo al rinnovamento della cultura dell’organizzazione nell’interpretazione dei processi economici, sociali e produttivi connessi al c.d. miracolo economico da cui uscì un’Italia fortemente trasformata.
Ma la svolta decisiva della vita Trentin la trovò alla Fiom dove fu, insieme a Pierre Carniti e a Giorgio Benvenuto, protagonista della grande stagione dei metalmeccanici che non durò per un solo autunno (quello “caldo” del 1969) ma per molti anni sollecitando, con la mitica FLM, un impegno unitario di tutto il movimento sindacale che arrivò ad un passo dal realizzare la grande speranza della riunificazione.
Per non parlare delle innovative conquiste contrattuali di quegli anni (i diritti di contrattazione, di informazione e consultazione e le prerogative sindacali e dei lavoratori sul posto di lavoro, la parificazione normativa tra impiegati ed operai, l’inquadramento unico, le 150 ore, la riduzione dell’orario di lavoro, ecc.) e delle politiche organizzative (i delegati e i consigli) che consentirono un assetto democratico e partecipativo, a disposizione di tutti i lavoratori, alle strutture di rappresentanza sindacale nelle aziende.
Poi, dopo diverse vicissitudini Trentin, concluse il suo impegno nel sindacato (anche se continuò a dare un contributo dopo la fine del mandato) da segretario generale della Cgil dal 1988 al 1994, in una fase densa di problemi e difficoltà determinati dai profondi cambiamenti politici ed economici sul piano nazionale ed internazionale.
Fu poi eletto al Parlamento europeo. Nel decimo anniversario della scomparsa di Bruno, la moglie Marcelle (Marie) Padovani ha affidato a Iginio Auriemma e all’Ediesse (la casa editrice della Cgil) la pubblicazione dei Diari di Bruno Trentin riferiti ai sei anni in cui restò alla guida della Confederazione.
In una società in cui la comunicazione “politicamente corretta” è solo quella intessuta di insulti, grida e schiamazzi plebei, già l’annuncio della pubblicazione dei Diari 1988-1994 di Bruno Trentin aveva incuriosito i tanti del mondo politico e sindacale che lo hanno conosciuto e lavorato con lui, essendo corsa la voce che Trentin, quando era solo con se stesso davanti ad una pagina bianca, aveva attribuito dei giudizi molto critici (se non addirittura sprezzanti) a tanti suoi contemporanei. Così, immagino, gli acquirenti del libro (in verità non ha avuto una diffusione all’altezza) saranno certamente andati a controllare subito che cosa il grande leader pensasse davvero di ciascuno di loro. Un atteggiamento sbagliato, perché i Diari contengono molto di più di qualche sfogo notturno. Confesso che anch’io non ho resistito alla tentazione di andare a scovare le considerazioni che mi riguardavano.
Ho scoperto che sono ben sei i punti del libro nei quali vengo citato: alle pagine 117, 164, 325, 326, 351 e 414. Non me la cavo per niente bene. In prima battuta viene definita “miserabile e insincera” la mia invenzione del “partito radicale di massa quale nuovo pericolo della Cgil” pubblicato dall’Avanti (il quotidiano del Psi) con molto rilievo. In questo caso, sarei stato un esecutore di Ottaviano Del Turco che fece svolgere un’azione parallela ad alcuni dei suoi “improvvidi fedeli” (come appunto chi scrive). Di seguito, avrei costretto Trentin a spendersi in diverse iniziative di stampa (interviste, articoli, saggi) nei confronti di un mio delirio (???) che avrebbe reso, in quella occasione, un cattivo servizio ad Ottaviano. Poi vengo definito il “consigliere pazzo” di Del Turco. E successivamente (poco male) “un grafomane”. Di nuovo poi sono associato ad Ottaviano questa volta però soltanto per dire che ci sarà anche la mia successione in segreteria insieme alla sua (infatti io e Del Turco ce ne andammo dall’organizzazione insieme nella medesima riunione del Comitato direttivo). Infine, eccomi divenuto “un menestrello folle” che canta a favore di “un’operazione sordida” (l’accordo con il governo Amato del 31 luglio 1992, immagino).
Che dire? Per me il mito di Bruno Trentin non viene per niente intaccato. Mi dispiace molto di averlo deluso. Mentre ho apprezzato che – sia pure nelle critiche – mi abbia riconosciuto come il più stretto collaboratore di Ottaviano Del Turco, fino al punto di attribuire all’esecuzione di un suo disegno (ancorché giudicato perverso e miserevole) i miei poveri scritti di allora.
Ma la principale sorpresa non è stata quella di scoprire un lato umano sconosciuto di Bruno che affronta i suoi momenti di depressione, che denuncia le amarezze e le delusioni, che avverte un intollerabile senso di isolamento e di incomprensione, che – nei viaggi, nella lettura e nello studio, spesso in maniera disordinata, nelle scalate alla montagne di San Candido e nell’incerta attitudine al giardinaggio nella casa di Amelia – cerca un rifugio, anzi un’uscita di sicurezza dalle angosce e dal disincanto di chi assiste al dileguarsi delle certezze del “suo” mondo per inoltrarsi verso un ignoto che fa paura per la sua infinita miseria morale prima ancora che politica.
Ciò che sorprende va cercato altrove. I Diari presentano – è vero – diversi aspetti discutibili. È singolare però la sostanziale disattenzione con cui il libro è stato accolto. A parte due belle recensioni di Marco Cianca sul Corriere della Sera e di Miche magno sul Foglio (due persone che gli furono amiche in vita) le altre sono state di prammatica e sbrigative. Le ragioni di questo disinteresse possono essere tante. Innanzi tutto vi è un problema di adeguate distribuzione e pubblicità, che la casa editrice non è in grado di permettersi. Poi i fatti commentati non solo riguardano una sorta di soggetto divenuto misterioso come il sindacato, ma appartengono ormai ad un passato dimenticato dai lettori di oggi.
Qualche conto però non torna. I pochi che hanno scritto dei Diari sembrano aver volutamente ignorato od eluso (tranne Cianca e Magno) la vera notizia contenuta nel volume: la critica definitiva ed implacabile che Trentin rivolge (tra le tante) alle organizzazioni sindacali, Cgil compresa. Un leader sindacale che scopre e denuncia “di che lacrime grondi” il potere del sindacato (e non solo di quello italiano) dovrebbe richiamare l’attenzione dei media, al pari dell’uomo che morde il cane. Ma la Cgil non si tocca. È come la Chiesa. Neppure il Papa può biasimarla.
A dire la verità dalla attenta lettura di quei brani di vita ho capito, un quarto di secolo dopo, il senso di alcuni obiettivi che Trentin si era posto durante la sua direzione della Cgil e che allora mi sembravano un po’ vezzi da intellettuale. Il c.d. sindacato di programma, ad esempio. Per lui riconoscersi come comunità in un programma era l’unica via possibile per ritrovare quell’identità che larga parte dell’organizzazione aveva smarrito dopo il crollo e la scomparsa del comunismo. A pensarci bene, erano la disciplina e la moralità connaturate all’ideologia comunista a tenere insieme la Cgil. La “cinghia di trasmissione” non corrispondeva ad un perenne “obbedisco” al partito; si svolgeva e si realizzava attraverso un dibattito, anche aspro e difficile, ma la decisione presa veniva rispettata, costituiva la “linea di condotta” all’interno di una costituzione materiale sulla base della quale la Cgil era geneticamente composta da comunisti e socialisti.
Il venir meno – anche in modo occasionale (come nel 1984 e 1985) – ai legami imposti da questa alleanza avrebbe cambiato la natura stessa della confederazione. Trentin avvertiva tutto il peso della crisi della sinistra dopo il crollo del Muro di Berlino e temeva gli effetti che avrebbero potuto determinarsi in seguito alle iniziative di Fausto Bertinotti, all’interno del sindacato, e di Rifondazione comunista all’esterno. Ma qui stava la sua illusione: un programma non può prendere il posto di un’ideologia. Lenin diceva che i programmi sono bandiere (ideologiche, ndr) piantate nella testa della gente.
Tuttavia se un merito va riconosciuto a Bruno Trentin è quello di aver compreso che non si tagliano le proprie radici. È in fondo questa la critica che, in quegli anni, Bruno rivolgeva al gruppo di dirigente del Pci, che scelse di cambiare nome, rifiutandosi persino di entrare a far parte della grande tradizione socialdemocratica europea. Per liberarsi così del proprio passato, come lo smemorato di Collegno. Bruno aveva capito che senza un programma condiviso il partito già comunista e la Cgil avrebbero finito per frantumarsi in cordate di potere destinate a riprodursi per partenogenesi. Così è stato. A Trentin, almeno, la morte gli ha consentito di non vedere il fondo dell’abisso.
Dopo la sua morte, alle esequie laiche tenute nel piazzale davanti alla Cgil, in Corso d’Italia, Giovanna Marini cantò Les temps des cerises, We shall over come. Poi tutti intonarono insieme Bella ciao. Proprio come termina il XXIV libro dell’Iliade: “Questi furono gli estremi onori resi ad Ettore, domatore di cavalli”.
Membro del Comitato scientifico ADAPT