Bollettino ADAPT 31 agosto 2020, n. 31
Non è difficile – se si dispone di una certa dose di incoscienza – entrare in un regime di blocco dei licenziamenti (basta avere l’avvertenza di limitarsi a vietare per un periodo definito le risoluzioni del rapporto di lavoro per motivi economici, siano essi individuali o collettivi). Per raggiungere questo obiettivo, basta una norma di poche righe (come l’articolo 46 del decreto Cura Italia) per stabilire che, a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, veniva precluso per 60 giorni l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo e che nel medesimo periodo sarebbero state sospese le procedure pendenti alla data del 23 febbraio 2020. Era previsto, altresì, che durante tale periodo di 60 giorni, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non potesse recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo. Essendo il decreto entrato in vigore lo scorso 17 marzo, si era resa necessaria (attraverso il decreto Rilancio del 19 maggio) una proroga di ulteriori 3 mesi del divieto di licenziamento precedentemente stabilito.
La durata dello “stop ai licenziamenti” è risultata quindi di 5 mesi, decorrenti dal 17 marzo fino al 17 agosto 2020 e ha riguardato tutti i datori di lavoro indipendentemente dal numero dei dipendenti. Il decreto Rilancio convertito nella legge n.77/2020 stabiliva che i licenziamenti fossero bloccati fino al 17 agosto 2020. Pertanto, la proroga dal 13 luglio non ha lasciato alcun ‘’buco’’ temporaneo, in cui le aziende potessero procedere alla risoluzione di uno o più contratti per motivazioni economiche.
Che dire? Solo in Italia è stato assunto e prorogato un provvedimento di tale importanza nell’ambito delle misure di tutela dei lavoratori dagli effetti del lockdown. E per trovare una caso analogo, da noi, si deve risalire all’immediato dopo guerra, quando i governi di allora attuarono – con decreto luogotenenziale – un regime di blocco da febbraio a settembre del 1945. In seguito, attraverso proroghe e in via di fatto il blocco si protrasse fino all’agosto 1947 (le sinistre erano state escluse dal governo in maggio di quell’anno) quando entrò in vigore il primo accordo interconfederale in tema di licenziamenti. Fin dall’inizio erano esclusi dal regime del blocco coloro che rifiutavano, senza validi motivi, un diverso posto di lavoro.
L’esperienza di quegli anni lontani – sia pure in un contesto politico, economico e sociale assolutamente particolare (sopra la c.d. Linea Gotica i combattimenti erano ancora in corso) – dimostra tuttavia che è difficile uscire da quel livello di tutela del posto di lavoro. Perché i sindacati hanno buon gioco a resistere e a chiedere delle contropartite. Soprattutto nella crisi in cui vive il Paese, destinata a continuare se non addirittura ad arrivare a un radicale redde rationem con l’economica, è facile sollevare l’opinione pubblica, attraverso i media, in difesa di una politica di congelamento delle situazioni pre-covid, come è avvenuto fino ad ora.
A dire la verità la proroga del blocco prefigurata nel testo del decreto agosto, in conversione in Parlamento, ha compiuto dei passi in avanti. Si potrebbe quasi dire – se non si corresse il rischio di pronunciare una parola proibita – che ora il regime di blocco è sottoposto a “condizionalità”. Infatti, la deroga per i licenziamenti copre tutto il periodo di estensione della cassa integrazione senza che sia prevista una data in cui si sospende il blocco dei licenziamenti se non la fine della fruizione della cassa integrazione da parte dell’azienda.
A introdurre il blocco dei licenziamenti nel nuovo testo del governo è l’articolo 14 recante “Proroga disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo”, che al comma 1, a conferma di una proroga senza scadenza, si stabilisce quanto segue:
“1. Ai datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti d’integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID-19 di cui all’articolo 1 ovvero dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali di cui all’articolo 3 del presente decreto resta precluso l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223 e restano altresì sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto di appalto.”
Per tutto il periodo quindi in cui si fruisce della cassa integrazione o anche dell’esonero del versamento dei contributi stabiliti dal decreto Agosto stesso i licenziamenti sono bloccati e non si può procedere in tal senso. Il blocco dei licenziamenti quindi dovrebbe estendersi per tutte le 18 settimane di cassa integrazione ulteriori del decreto Agosto, che potranno essere richieste con decorrenza dal 13 luglio 2020.
Sono stati introdotte con il nuovo testo delle ‘’condizionalità’’. Sarebbero escluse, infatti:.
- le imprese che hanno cessato l’attività;
- le imprese dichiarate fallite quando non sia previsto l’esercizio provvisorio;
- nelle ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo.
In questo ultimo caso ai lavoratori è comunque riconosciuta l’indennità di disoccupazione Naspi.
Il comma 3 recita pertanto:
“3. Le preclusioni e le sospensioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano nelle ipotesi di licenziamenti motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività, nei caso in cui nel corso della liquidazione non si configuri la cessione di un complesso di beni od attività che possano configurare un trasferimento d’azienda o di un ramo di essa ai sensi dell’art. 2112 c.c., ovvero nelle ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo, a detti lavoratori è comunque riconosciuto il trattamento di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 22. Sono altresì esclusi dal divieto i licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione. Nel caso in cui l’esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo dell’azienda, sono esclusi dal divieto i licenziamenti riguardanti i settori non compresi nello stesso”
Il comma 4 stabilisce, come già previsto nel decreto Rilancio, che le aziende che rinunciano a procedure di licenziamento già avviate possono revocarle con accesso alla cassa integrazione senza oneri per il datore di lavoro. Si legge nel testo:
“4. Il datore di lavoro che, indipendentemente dal numero dei dipendenti, nell’anno 2020, abbia proceduto al recesso del contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, può, in deroga alle previsioni di cui all’articolo 18, comma 10, della legge 20 maggio 1970, n. 300, revocare in ogni tempo il recesso purché contestualmente faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale, di cui agli articoli da 19 a 22-quinquies del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, a partire dalla data in cui ha efficacia il licenziamento. In tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro.”
Le esclusioni sono al limite del buon senso, se non persino dell’ovvietà. È il momento di interrogarsi su quali contropartite potrebbero chiedere i sindacati per superare tale situazione di stallo, anche se la cig e il blocco sono divenute le ruote della stessa bicicletta. Corre voce che la “vittima sacrificale” potrebbe essere la disciplina legislativa del licenziamento individuale, con l’obiettivo di abbassare almeno il limite dei dipendenti oltre il quale scattano le tutele.
Tutto questo ribadisce la convinzione che governo e sindacati non riescano ad uscire dalla fase 1, come se, passata la bufera tutto potesse tornare come prima, per cui adesso occorre sedersi lungo il fiume ti ed aspettare, usando nel frattempo le copiose risorse che sono state promesse, per combinare il pranzo con la cena. Perché altrimenti i miliardi del Sure (27 sui 100 disponibili) sono benvenuti anche da parte di chi non vuole sentire parlare di Mes? Perché arrivano con il cacio sui maccheroni rispetto alle politiche da cui il governo non riesce non riesce a liberarsi: mettere riparo ai danni del covid sostituendo con ammortizzatori sociali, bonus, una tantum, indennità, sconti i redditi e i fatturati falcidiati dal lockdown e fingendo di mantenere in vita posti di lavoro finti. I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire”, ha detto Mario Draghi al Meeting di Rimini – ma ai giovani bisogna dare di più perché “i sussidi finiranno” e se la spesa a debito non sarà servita a formarli professionalmente, a creare nuove opportunità, saranno loro a essere le vittime sacrificali. Ma non nascondiamoci dietro un dito. Esiste, nel Paese, uno schieramento trasversale – che tiene insieme pezzi della maggioranza e dell’opposizione e che include anche i sindacati – che esprime una linea molto esplicita: arriveranno molte risorse che ci consentiranno di tirare avanti distribuendo ed incassando sussidi. Poi ci penserà il solito stellone.
Membro del Comitato scientifico ADAPT