Bollettino ADAPT 22 maggio 2023, n. 19
I contratti a tempo determinato sono oggetto di una fatwa degli Ayatollah sindacali, che hanno trovato il modo di ribadire la loro scomunica in occasione del decreto n. 48/2023 (quello del 1° Maggio) che ha ritoccato la disciplina vigente, dando luogo ad un incredibile qui pro quo. Di che si tratta? Il governo ha presentato le nuove norme di cui all’articolo 24 come una misura per facilitare le imprese nell’assumere a termine (dopo che le regole introdotte con il decreto dignità del 2018 si sono parecchio sfilacciate a seguito delle sospensioni durante la fase acuta della pandemia).
Il “qui pro quo”
In realtà le aziende non vengono per niente facilitate, ma si ritrovano – in mancanza di normative contrattuali che definiscano le causalità di rinnovo o di proroga ammesse dopo i primi 12 mesi liberalizzati – a fare i conti con quel “causalone” (le esigenze tecniche, produttive, organizzative, sostitutive) che, nella loro genericità, fanno la gioia dei giudici del lavoro nel trovare il modo di trasformare, alla sua conclusione, un contratto a termine in uno a tempo indeterminato. Gli unici a prendere in parola le intenzioni del governo sono stati i sindacati (e l’opposizione di sinistra) per i quali sono bastate le parole “maggiore flessibilità”, per protestare contro la precarietà determinata dal decreto. Se il governo se la dice e se la canta da solo, sarà così. In Senato, la Commissione competente sta procedendo alle audizioni. Essendo numerosi i soggetti convocati, il tempo assegnato a ciascuno è inevitabilmente limitato; è opportuno, allora, consultare i documenti e le note che vengono consegnati dopo le audizioni che contengono opinioni e valutazioni più complete. Soprattutto quelle di carattere istituzionale, possono fornire una certa garanzia di imparzialità e quindi sono le più interessanti, anche se si concentrano su aspetti diversi e spesso giungono a conclusioni differenti.
Le considerazioni dell’INAPP sul lavoro a termine
La Nota consegnata dall’INAPP, per esempio, nella parte riguardante il lavoro a termine, è contenuta una riflessione che potremmo definire “sistemica” poiché questa fattispecie contrattuale viene inserita, nel tempo, nelle diverse dinamiche del mercato del lavoro e “si contestualizza in un’ottica di lungo periodo” che tenga conto degli effetti sul sistema economico e sulle condizioni dell’offerta di lavoro, compresa la presenza di categorie o aree territoriali particolarmente vulnerabili (es giovani under 30, donne e Mezzogiorno). “Il ricorso al lavoro a termine, che rappresenta da tempo la principale modalità di ingresso nel mercato del lavoro, può esercitare – secondo l’INAPP, sia una funzione “ponte”, di facilitazione all’accesso, soprattutto nel caso di primo ingresso, sia una funzione di supporto alle transizioni economiche ed organizzative, in un contesto di ciclo economico avverso o di incertezza. In entrambi i casi può essere lo strumento che comunque conduce ad un impiego standard, come auspicato dallo stesso articolato del decreto. Osservando per ogni annualità lo stock dei nuovi contratti attivati per tipologia e genere, dopo il 2015, anno degli esoneri contributivi triennali (nella legge di bilancio), il ricorso al tempo indeterminato inizia a calare sino al 2020, anno in cui segna una timida ripresa. Ma parallelamente, dal 2015 inizia anche l’ampia parabola del ricorso al lavoro a termine, che subisce uno stop nel 2020 per effetto della disciplina del lavoro in periodo di pandemia e poi riprende con un’impennata nel 2021, diventando la forma pressocché prevalente di creazione di occupazione per uomini e donne. La crescita del lavoro a termine è sostenuta anche dalle misure di agevolazione alle assunzioni. Secondo l’INAPP, che ha elaborato dei dati Inps, le nuove attivazioni contrattuali nel 2022 hanno superato gli 8 milioni, di cui il 41% riguarda donne. Di questi 8 milioni, il 23,6 % è avvenuto grazie una forma di agevolazione/incentivo (e nello specifico, il 24% degli oltre 4milioni di assunzioni maschili e il 23% degli oltre 3 milioni di assunzioni femminili). Sono a tempo indeterminato però solo il 16% del totale delle assunzioni incentivate (e nello specifico il 17% di quelle maschili e il 14% di quelle femminili).
La tipologia delle assunzioni
Continua ad essere prevalente l’accesso al lavoro a tempo determinato che rappresenta il 44 % del totale delle assunzioni e il 39% di quelle agevolate. In questo scenario va segnalato l’effetto di combinazione tra contratto a termine e regime orario ridotto (cd. part time in ingresso). Siamo in presenza di un crescente trend di impiego del lavoro del tempo parziale come condizione contrattuale di accesso al lavoro – e non come condizione scelta reversibile ai sensi delle norme, che attraversa tutte le tipologie contrattuali. Fermo restando lo scenario strutturale di gap di genere del part time, le cui curve parallele di uomini e donne segnano una distanza media di 30 punti percentuali, si evince che sino al 2016, il part time prevalente, in fase di attivazione, per entrambi era quello a tempo indeterminato, come se i nuovi contratti a tempo parziale fossero la risultanza dell’incontro tra esigenze di stabilità contrattuale e ore ridotte per l’esecuzione della prestazione.
La “debolezza rafforzata”
Da metà 2016 e più compiutamente dal 2017, la quota di part time a tempo determinato si impenna e supera quella a tempo indeterminato sia per uomini che per donne, diventando una modalità ordinaria di reclutamento, tanto che la sua incidenza sul totale dei contratti diventa stabile sino al 2020, anno della pandemia, per poi risalire in modo più incisivo per le donne. Questo aspetto ricorda come la fase di ripresa post pandemica pur segnando un incremento quantitativo dell’occupazione femminile, abbia tuttavia generato, sotto il profilo qualitativo posti di lavoro caratterizzati – scrive l’INAPP – da una “debolezza rafforzata” (part time + lavoro a termine).
Le trasformazioni
Per quanto riguarda l’andamento delle trasformazioni contrattuali da tempo determinato a tempo indeterminato, come stock annuale per genere dal 2014 al 2022, l’Inapp mette in evidenza che la relativa dinamica è sostenuta positivamente dalle misure di agevolazione che rappresentano un incentivo importante alla stabilizzazione nel mercato del lavoro, soprattutto del target femminile. L’utilizzo dell’incentivo per la stabilizzazione rappresenta infatti un uso pertinente di una misura di policy pubblica, che, conformemente alla ratio di agevolazione, interviene a facilitare un processo e a sostenere economicamente la domanda di lavoro in una trasformazione contrattuale che per l’impresa potrebbe essere più complesso da gestire in autonomia.
Il lavoro non strandard
Il tema del lavoro a termine costituisce, tuttavia, solo una parte di un aggregato più ampio definibile come lavoro atipico, che in tale contesto rappresenta una prospettiva di particolare interesse per gli obiettivi espressi dalla norma. Inapp, grazie all’Indagine Inapp Plus, da tempo ha proceduto ad una definizione di due aggregati occupazionali e contrattuali (lavoro standard e non standard), che consentisse di includere nelle stime anche l’eterogeneo gruppo del lavoro autonomo sotto il profilo del grado di effettiva autonomia. Con il termine “standard” si qualificano le persone con un impiego dipendente a tempo indeterminato e autonomi “veri” ovvero con livelli di etero-direzione bassi, alta professionalità e continuità nel tempo dell’attività. Invece con “non standard o atipici” si intendono gli impieghi a termine (tempo determinato, apprendisti, a somministrazione, ecc.) e gli “pseudo autonomi” con vincoli di etero-direzione alti, ossia con caratteristiche della prestazione prossime al lavoro dipendente.
L’andamento della aticipità
L’andamento nel tempo dell’indicatore di atipicità passa da un livello del 12,4% del 2005 ad un 14,1 % del 2010 per arrivare al 2021 con una incidenza del 16,1% (in linea con i parametri europei). In altre parole – conclude la nota – l’utilizzo dei contratti non standard è divenuto strutturale. Concentrandosi poi sul 2021, il dato più recente, emerge che i giovani presentano livelli di atipicità sistematicamente superiori al 40%, un livello 3 volte superiore al dato medio. L’atipicità è presente in tutti i controlli, leggermente più bassa nelle imprese di grandi dimensioni e tra le persone over50. Il Sud presenta i livelli più elevati. Il monitoraggio condotto da Inapp Plus sull’esito dei contratti non standard dopo 24 mesi, mostra il permanere in una condizione occupazionale atipica in oltre 1/3 dei casi. Questi esiti si confermano in tutti i periodi di osservazione, contraddistinti da contesti economici marcatamente diversi.
L’INPS
Più sbrigative sono le considerazioni contenute nella Memoria consegnata dall’Inps dopo l’audizione. Viene evidenziata “una decrescita di tale tipologia di contratti nell’ultimo anno a fronte di una ripresa del numero dei contratti a tempo indeterminato, che potrebbe essere influenzata dalla favorevole dinamica dell’economia e del mercato del lavoro”. Tuttavia, l’andamento favorevole dei contratti a tempo indeterminato sembrerebbe trovare riscontro anche in corrispondenza di provvedimenti di restrizione, in alcune fasi del ciclo economico, della possibilità di rinnovare i contratti a tempo determinato. In sostanza, l’Istituto sembra sostenere che tra l’assunzione a termine e la trasformazione a tempo indeterminato vi sia un percorso di continuità legato all’andamento dell’economia. Una valutazione che – se l’abbiamo ben compresa – non troverebbe nel contratto a termine una contraddizione – se non temporanea – con l’assunzione a tempo interminato.
Membro del Comitato scientifico ADAPT