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Il XVIII Congresso nazionale della Cisl si è appena concluso. Il Consiglio generale ha rieletto Annamaria Furlan alla guida dell’organizzazione. Le cronache non sono più generose come nel passato, quando si tratta di commentare un evento riguardante un’associazione sindacale. Riesce pertanto difficile comprendere se il dibattito sia stato all’altezza del discorso pronunciato da Papa Francesco, nell’udienza concessa ai dirigenti e ai delegati poche ore prima dell’inizio dei lavori. Ciò che ha detto in quell’occasione il Pontefice non è, ad avviso di chi scrive, tutto condivisibile, soprattutto da parte di un sindacato che, nelle tesi, aveva definito nemico dei lavoratori il populismo (Furlan è tornata su questo concetto anche nelle conclusioni). Nell’omelia, infatti, si sono sfiorati alcuni dei principali argomenti che contraddistinguono quella (sub)cultura. A parte la sottolineatura dell’importanza dell’ozio (come componente essenziale della vita) e la giusta condanna del lavoro minorile, vi sono nel Discorso del Pontefice alcuni passaggi discutibili.
“E quando non sempre e non a tutti – ha sentenziato Francesco – è riconosciuto il diritto a una giusta pensione – giusta perché né troppo povera né troppo ricca: le “pensioni d’oro” sono un’offesa al lavoro non meno grave delle pensioni troppo povere, perché fanno sì che le diseguaglianze del tempo del lavoro diventino perenni”. Se è così, come la mettiamo con la parabola dei talenti? Il padrone, prima di partire per un viaggio, distribuisce – in misura diversa tra i suoi servi – dei talenti. Quando ritorna, chiede conto della loro gestione; loda e premia i due che hanno raddoppiato il capitale (pur avendo ottenuto molte più monete del terzo), mentre punisce e scaccia (al buio, al freddo e allo stridore di denti) il servo che aveva nascosto il suo talento. Non è un caso che il nome della moneta sia divenuto anche la descrizione del profilo e delle qualità di una persona. Il talento è un dono di Dio, chi lo possiede ha il dovere di avvalersene, di raddoppiare il capitale, se ne è capace. E ha diritto di ricevere un premio. Oppure, dobbiamo pensare che al momento della pensione entrino in ballo altre regole del gioco: una sorta di giustizia redistributiva grazie alla quale non viene concesso secondo i meriti, ma secondo i bisogni di ciascuno?
Certo. Ci sarebbe molto da dire sul percorso compiuto dal sistema pensionistico da quando, nel fatidico 1969, fu varata una riforma impostata su di un principio che poi si è rivelato insostenibile e sicuramente discutibile: assicurare al pensionato un reddito equipollente a quanto aveva raggiunto in vita, alla fine della carriera lavorativa. Di qui a parlare di “offesa” ce ne corre; come a ritenere esenti da qualunque responsabilità coloro che, durante la vita attiva, non sono stati capaci di implementare i talenti che avevano ricevuto in custodia. Il libero arbitrio dell’essere umano si misura anche su questi aspetti. O no?
Guai allora a voler semplificare, con un’inesauribile riserva di buonismo, problemi complessi ed indicare, dal Soglio a cui Dio ha innalzato i continuatori di Pietro, soluzioni che spettano a Cesare.
Poi il Papa ha parlato di giovani, anziani ed occupazione: “È allora urgente un nuovo patto sociale umano, un nuovo patto sociale per il lavoro, che riduca le ore di lavoro di chi è nell’ultima stagione lavorativa, per creare lavoro per i giovani che hanno il diritto-dovere di lavorare. Il dono del lavoro è il primo dono dei padri e delle madri ai figli e alle figlie, è il primo patrimonio di una società. È la prima dote con cui li aiutiamo a spiccare il loro volo libero della vita adulta”. Così Francesco. Eppure, in Italia sono state tentate più volte operazioni come quelle da lui proposte. La ultima prevedeva una forma di part time agevolato sia a livello contributivo che retributivo; ma è stata utilizzata da meno di 300 lavoratori.
Francesco ha detto delle parole importanti sul lavoro, la sua dignità, la sua “funzione terapeutica” e i suoi diritti: perché allora non aggiungere che tutti i lavori sono decenti e che rifiutare un’occupazione – succede molto spesso ai nostri giovani – è una ‘’offesa’’ a coloro che (di solito i lavoratori stranieri tanti cari al Papa) quelle mansioni accettano di svolgere? “È una società stolta e miope – insiste il Papa – quella che costringe gli anziani a lavorare troppo a lungo e obbliga una intera generazione di giovani a non lavorare quando dovrebbero farlo per loro e per tutti”. Anche questo è un luogo comune perché in Italia – nonostante la riforma Fornero – la maggioranza dei pensionati (soprattutto se maschi) conserva ancora la possibilità effettiva di ritirarsi poco più che sessantenni.
E che dire delle attese di vita meglio di quanto non si trova in una pubblicazione della CEI sul cambiamento demografico? “La popolazione degli ultrassesantacinquenni (i nonni) supera già adesso di oltre mezzo milione quella con meno di vent’anni (i nipoti), ma nel 2030 potrebbe superarla di ben sei milioni”. Il lavoro degli anziani non è solo richiesta ai fini di un minore squilibrio dei conti previdenziali, ma rappresenta una necessità del mercato, anche perché, come scrive ancora la CEI ‘’un sistema di aspettative e di valori legati al lavoro non regge più e va rivisto alla luce della più cruda realtà odierna”.
Di altro livello sono sembrate le considerazioni di Francesco per quanto riguarda il ruolo del sindacato. La profezia e l’innovazione sono le due sfide che esso deve affrontare. “Nelle nostre società capitalistiche avanzate il sindacato rischia di smarrire questa sua natura profetica, e diventare troppo simile alle istituzioni e ai poteri che invece dovrebbe criticare. Il sindacato col passare del tempo ha finito per somigliare troppo alla politica, o meglio, ai partiti politici, al loro linguaggio, al loro stile. E invece, se manca questa tipica e diversa dimensione, anche l’azione dentro le imprese perde forza ed efficacia”. Questa è la profezia, secondo la visione del Santo Padre.
Quanto alla seconda sfida, l’innovazione consiste nello svolgere la propria funzione sociale non solo vigilando su coloro che sono dentro, proteggendo solo i diritti di chi lavora già o è in pensione. “Questo va fatto, ma è metà del vostro lavoro. La vostra vocazione – sottolinea il Papa – è anche proteggere chi i diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia”. Anche Marco Biagi parlava di “diritti dei disoccupati”. E quindi evocare temi
siffatti suscita certamente interesse. Soprattutto quando il Sommo Pontefice affonda il coltello della critica: “Ma forse la nostra società non capisce il sindacato anche perché non lo vede abbastanza lottare nei luoghi dei “diritti del non ancora”: nelle periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro’’.
In sostanza, l’innovazione dovrebbe riportare il sindacato al suo ruolo originario. Noi non siamo vaticanisti né interpreti del pensiero del Papa. Sappiamo però che demonizzare il c.d. precariato non serve a risolvere il problema. Certo. Organizzare coloro che hanno rapporti di lavoro atipici o sono occupati saltuari, migranti, disoccupati, dare eguaglianza effettiva al lavoro delle donne non è facile. Ma era altrettanto difficile “essere sindacato” agli albori della società industriale, quando gli avversari non erano soltanto i detentori dei mezzi di produzione e di scambio (ostili a riconoscere il diritto alla contrattazione collettiva), ma i cannoni di Bava Beccaris e le leggi di uno Stato nemico. È questa una riflessione che – solennemente ribadita dal Papa al Congresso della Cisl – farà il giro dei consessi delle altre organizzazioni. Ma anche questa volta finirà per non trovare risposta.
Membro del Comitato scientifico ADAPT