Politically (in)correct – Il “duro calle” della previdenza complementare

Bollettino ADAPT 21 giugno 2021, n. 24

 

Nei giorni scorsi la Covip (Commissione di vigilanza sui fondi pensione) ha presentato la Relazione di attività nell’anno 2020. Anche in questo settore (come in altri) le aspettative erano peggiori di quanto si è potuto verificare a consuntivo.  ‘’A uno sguardo d’insieme – scrive l’Autorità di vigilanza – l’impatto della pandemia sul sistema italiano della previdenza complementare appare abbastanza limitato’’. Il che non significa – come risulta da un’attenta lettura del documento sempre ricco di dati e di considerazioni – che non siano confermati i problemi ormai di carattere strutturale in un settore che si appresta a festeggiare il trentennale della sua istituzione. Iniziamo con un’istantanea sull’assetto del sistema di previdenza complementare nel 2020.

 

Alla fine del 2020, il sistema di previdenza complementare conta 372 forme pensionistiche (otto in meno dell’anno precedente) per complessivi 8,445 milioni di iscritti, il 2,2 per cento in più rispetto al 2019; in rapporto alle forze di lavoro, essi rappresentano il 33 per cento. A tale numero di iscritti corrisponde un numero di posizioni in essere di 9,342 milioni: a ogni 10 iscritti si riferiscono, mediamente, 11 posizioni, proporzione che risulta in linea con quanto osservato da quando sono operative le nuove segnalazioni che permettono tale distinzione.

 

Le risorse complessivamente destinate alle prestazioni, 197,9 miliardi di euro, si sono accresciute del 6,7 % rispetto al 2019, ragguagliandosi al 12 % del PIL e al 4,1 % delle attività finanziarie delle famiglie italiane. L’aumento delle risorse accumulate, 12,5 miliardi di euro, è stato determinato da contributi per 16,5 miliardi, a fronte di uscite per prestazioni e altre voci della gestione previdenziale per 8,6 miliardi; il saldo della gestione finanziaria è stato positivo per circa 4,6 miliardi di euro. Escludendo dal computo i fondi preesistenti, i costi complessivi di gestione, che sono dedotti dalle risorse e quindi incidono negativamente sulla loro accumulazione, sono stimabili in 1,155 miliardi di euro: per più della metà (697 milioni) essi gravano sul settore dei PIP, sono pari a 292 milioni per i fondi aperti e ammontano a 166 milioni di euro per i fondi negoziali, incidendo quindi in proporzione alle risorse in misura nettamente minore rispetto alle forme di mercato. Per i fondi preesistenti, la stima dei costi complessivi è resa più difficile per la loro eterogeneità strutturale, e in particolare per la rilevante quota delle risorse detenuta sotto forma di riserve matematiche presso imprese di assicurazione, il cui costo è inglobato nel rendimento retrocesso. I fondi preesistenti si compongono di 154 fondi autonomi, cioè provvisti di soggettività giuridica, e 72 fondi “interni”, ossia piani pensionistici costituiti come posta contabile nel bilancio di singole aziende (tipicamente bancarie o assicurative) e gestiti all’interno delle aziende stesse a favore di propri dipendenti.

 

Le 372 forme pensionistiche complementari operanti nel sistema a fine 2020 sono così ripartite: 33 fondi pensione negoziali, 42 fondi pensione aperti, 71 piani individuali pensionistici di tipo assicurativo (PIP) cosiddetti “nuovi” e 226 fondi pensione preesistenti. Nel totale non è più incluso FONDINPS a seguito del decreto di soppressione del marzo del 2020 e del successivo conferimento al fondo COMETA delle posizioni individuali dei lavoratori già iscritti e dei flussi futuri di TFR.

 

Esaminiamo in sintesi i problemi che caratterizzano il settore e che vengono sostanzialmente confermati ad ogni Relazione e che generalmente appaiono in contraddizione con le mission che il legislatore aveva affidato alla previdenza complementare volontaria e a capitalizzazione nel quadro delle revisioni appartate al sistema obbligatorio. Per ragioni di sintesi ci atterremo alle considerazioni che ci sembrano maggiormente significative.

 

I gap di genere, anagrafico e territoriale

 

Su 8,4 milioni di iscritti alla previdenza complementare alla fine del 2020, gli uomini sono il 61,7 per cento e le donne il 38,3; rispetto al 2017, quando era pari al 37,7 per cento, si osserva una lieve crescita della componente femminile. La proporzione tra i generi si mantiene simile nelle diverse fasce di età; fa eccezione la classe che raggruppa gli iscritti con meno di 19 anni, formata soprattutto da familiari a carico, nella quale le donne raggiungono il 45,2 per cento.

 

Per classe di età degli iscritti, solo il 17,4 per cento ha meno di 35 anni mentre il 51,6 appartiene alla fascia di età centrale (35-54 anni) e il 31 per cento ha almeno 55 anni. Dal 2017 al 2020 la percentuale della classe più giovane è rimasta invariata mentre si è assistito a un progressivo spostamento dalle classi di età centrali a quelle più anziane, pari a circa cinque punti percentuali.

Per effetto di tali scostamenti, l’età media degli iscritti è salita negli ultimi quattro anni da 45,9 a 46,8 anni; essa è di poco più elevata per gli uomini (46,9) rispetto alle donne (46,6).

 

La ripartizione secondo l’area geografica di residenza continua a mostrare la prevalenza di iscritti localizzati nelle regioni settentrionali (57 per cento); nelle regioni centrali risiede il 19,8 per cento degli iscritti e in quelle meridionali e insulari il 23,1. Per forma pensionistica, è superiore alla media generale la concentrazione di iscritti nelle regioni del Nord Italia per fondi aperti (64,1) e fondi preesistenti (63,6); è superiore nelle regioni del Mezzogiorno per PIP e fondi negoziali (circa il 25 %).

 

Forme pensionistiche complementari – Tasso di partecipazione per regione

(dati di fine 2020; iscritti in percentuale delle forze di lavoro)

 

Adesioni alle diverse forme di previdenza complementare

 

Essendo la contrattazione collettiva (al pari dell’iniziativa collettiva unilaterale) indicata come principale fonte istitutiva della previdenza privata, tanto che il TFR (un istituto prettamente riferito al lavoro dipendente) è assunto quale elemento prioritario di finanziamento delle diverse forme, ai fondi negoziali dovrebbe spettare la funzione rappresentativa e tipica del c.d. secondo pilastro. In effetti i lavoratori dipendenti sono i maggiori utenti delle forme di previdenza privata, ma, in assoluto, non lo sono dei fondi pensione negoziali.

 

I lavoratori dipendenti iscritti al sistema della previdenza complementare sono 6,021 milioni, il 2,2 % in più rispetto al 2019. Le forme collettive negoziali e preesistenti ne concentrano la quota maggiore (3,445 milioni); in quelle di mercato, i lavoratori dipendenti iscritti ai PIP “nuovi” (2,1 milioni) sono oltre il doppio di quelli iscritti ai fondi aperti (870mila). Il fatto che 3 milioni di lavoratori dipendenti abbiano scelto forme diverse dai fondi negoziali (in particolare i PIP ovvero polizze assicurative individuali equiparate alle altre tipologie complementari) meriterebbe una riflessione, soprattutto da parte delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali.

 

Il pubblico impiego

 

Per una serie di motivi il pubblico impiego ha rappresentato uno dei limiti più vistosi per il settore. Ora pur essendo intervenuta un’ampia copertura sul versante contrattuale, le adesioni stentano a svilupparsi adeguatamente. I lavoratori dipendenti includono anche 461mila lavoratori del settore pubblico; il numero potrebbe essere sottostimato considerando che i dati disponibili per fondi aperti e PIP non consentono di distinguere in modo pieno i dipendenti pubblici, specie se iscritti in data antecedente il 2014. Circa 227mila sono gli iscritti alle iniziative di tipo occupazionale dedicate ai dipendenti del pubblico impiego; di questi: circa 98mila sono di pertinenza del fondo rivolto al comparto della scuola; 76.000 del fondo destinato al comparto regioni e autonomie locali, sanità, Ministeri e Presidenza del Consiglio dei ministri; gli altri distribuiti per lo più nei fondi negoziali di matrice territoriale.

 

Gli “altri iscritti”

 

Vi è poi un numero elevato di cosiddetti “altri iscritti”, circa 1,293 milioni, il 3 per cento in più rispetto al 2019. Essi comprendono soggetti diversi dai lavoratori, quali i soggetti fiscalmente a carico, coloro che hanno perso i requisiti di partecipazione alla forma pensionistica per perdita o cambio di lavoro ovvero per pensionamento obbligatorio e, soprattutto, altri soggetti non classificati per i quali la forma pensionistica non dispone di informazioni aggiornate sulla situazione occupazionale. Tale ultimo fenomeno, quantificabile in circa 765mila casi, assume rilievo nelle forme di mercato (243mila nei fondi aperti e 519mila nei PIP), riferendosi a individui con iscrizione risalente nel tempo.

 

Gli iscritti non contribuenti

 

Escludendo dal computo i PIP “vecchi”, per i quali non sono disponibili dati a livello individuale, gli iscritti privi di versamenti nel 2020 sono 2,2 milioni, il 27 % del totale; nel 2016 la percentuale era del 22 %. A tale numero di iscritti corrispondono 2,324 milioni di posizioni non alimentate; il residuo delle posizioni prive di versamenti, circa 426mila, fa riferimento a iscritti con rapporti di partecipazione in più forme pensionistiche che versano su almeno uno di essi. La quota di iscritti non versanti è maggiore nelle forme di mercato, fondi aperti (38,3 %) e PIP (33,7 %); rispetto al 2016, aumenta di circa un punto percentuale nei fondi aperti e di circa quattro punti percentuali nei PIP. Nei fondi negoziali, i non versanti costituiscono il 21,3 % degli iscritti, risultando in decisa crescita rispetto all’11,7% del 2016. L’accelerazione è direttamente correlata alla diffusione del meccanismo di adesione contrattuale: sul totale di 691mila, i non versanti con adesione contrattuale sono 429mila. Non trascurabile è il fenomeno dei non versanti anche nei fondi preesistenti: circa 99mila soggetti pari al 16,1 per cento del totale; era il 12,7 % nel 2016.

 

La condizione di non versante differisce in modo significativo secondo la categoria di iscritto: i versamenti nulli incidono di più tra i lavoratori autonomi (45,9 %) rispetto ai lavoratori dipendenti (20 %) sebbene relativamente meno numerosi (471mila rispetto a 1,184 milioni); elevata anche la quota di non versanti tra gli altri iscritti, 45,6 %, per 545mila individui.

 

Quasi la metà degli iscritti che ha sospeso i versamenti, 992mila per complessivi 1,021 milioni di posizioni, non versa contributi da almeno cinque anni; per tali soggetti, il 12,2 % degli iscritti totali e l’11,3 % del totale delle posizioni, la condizione di non versante ha assunto natura strutturale e più difficile diventa il ripristino di una partecipazione attiva alla previdenza complementare. Sono non versanti da almeno cinque anni il 7,2 % dei dipendenti, il 29,6 degli autonomi e il 22,8 degli altri iscritti. Il 7,7 % ha una posizione individuale uguale a zero e un altro 40 % non supera comunque i 1.000 euro. Non è certo un segnale confortante che vi siano più di 2,2 milioni di iscritti che hanno cessato di versare e che almeno la metà di essi siano considerati non contribuenti ‘’strutturali’’ o titolari di posizioni individuali ‘’silenti’’.

 

Forme pensionistiche complementari – Iscritti non versanti per classe di posizione individuale

(dati di fine 2020; valore in percentuale sul totale degli iscritti non versanti)

 

Le prestazioni

 

I riscatti integrali sono stati 92.500, in diminuzione dai 99.600 dell’anno precedente; per oltre la metà essi sono relativi ai fondi negoziali.

Le nuove prestazioni pensionistiche hanno interessato 123.300 posizioni; per la gran parte sono formate da prestazioni in capitale, salite da 104.300 a 119.400.

Il numero di posizioni trasformate in rendita continua a risultare modesto (circa 3.900), pur essendo in lieve crescita rispetto al 2019 (3.400). Le rendite complessivamente in corso di erogazione alla fine del 2020 sono 118.800, per quasi la totalità riferite ai fondi preesistenti.

Le rendite integrative temporanee anticipate (RITA) erogate nel 2020 sono state 14.900, in crescita rispetto alle 8.600 dell’anno precedente; di queste, 11.800 sono a valere sull’intero montante accumulato. Il numero maggiore di RITA è stato erogato nei fondi preesistenti: circa 12.500 (7.100 nel 2019); seguono i fondi negoziali con 1.600 (900 nel 2019), i fondi aperti con 740 (540 nel 2019) e i PIP con 60 (50 nel 2019).

 

Le risorse destinate alle prestazioni e la loro allocazione

 

Ogni tanto si fa viva una qualche ‘’anima bella’’ che propone di utilizzare le risorse detenute dalle forme complementari per investire nell’economia reale. Si tratta di circa 200 miliardi che, prima della provvista attesa dal NGEU, facevano gola a parecchi. In realtà, è necessario aggiustare le effettive disponibilità: Su 197,9 miliardi di euro di risorse destinate alle prestazioni alla fine del 2020, gli investimenti direttamente riferibili alle forme pensionistiche complementari ammontano a 161,8 miliardi di euro, contro i 150,3 miliardi del 2019. Rispetto alle complessive risorse destinate alle prestazioni, tale aggregato esclude le riserve matematiche facenti capo a fondi preesistenti ma detenute presso imprese di assicurazione (28,1 miliardi di euro), le risorse dei fondi interni a banche, imprese di assicurazione e società non finanziarie (1,4 miliardi), nonché le risorse facenti capo ai PIP “vecchi” (7 miliardi).

 

Il debito pubblico italiano costituisce il 47,1% del portafoglio titoli di Stato, quattro punti percentuali in meno rispetto al 2019. Tra gli altri emittenti sovrani dell’area dell’euro, i titoli spagnoli sono pari all’11,2 per cento (11 nel 2019); seguono i titoli francesi con il 9,3% (8,8 nel 2019) e quelli tedeschi con il 4,6 % (4,4 nel 2019). Al di fuori dell’area dell’euro, il peso dei titoli governativi degli Stati Uniti è del 9,2% (9,4 nel 2019). L’esposizione azionaria, calcolata includendo anche i titoli di capitale detenuti per il tramite degli OICR e le posizioni in strumenti derivati, si è attestata al 27,9 % dal 26,6 dell’anno precedente. Si conferma così la sostanziale dipendenza anche della previdenza privata alla dinamica dei titoli di Stato, da tempo sostenuti (artificialmente?) dagli acquisti della Bce, allo scopo di contenere l’incremento (al limite della sostenibilità) dei tassi di interesse. Si registra comunque una flessione determinata per lo più dalla riduzione della componente del debito pubblico italiano, in particolare nei fondi negoziali (5,2 punti percentuali in meno, l’11,6 % degli investimenti a fine anno) e nei PIP (3,4 punti in meno, il 31,8 % a fine 2020); diminuzioni si registrano anche nei fondi aperti (1,2 punti in meno, il 18,7 % a fine anno) e nei fondi preesistenti (0,9 punti in meno, l’11,1 % a fine 2020).

 

A fronte del più ridotto peso dei titoli di Stato, salgono gli altri titoli di debito in particolare nei fondi negoziali e nei fondi aperti: rispettivamente, dal 19,5 al 22,2 % e dall’8,3 al 9,9 %.

L’incidenza dei titoli di capitale aumenta dal 24,5 al 26,5 % nei fondi aperti, dal 17,7 al 18,7 % nei fondi preesistenti e dal 22,6 al 23,3 % nei fondi negoziali. Nei PIP, essa resta invariata.

Gli investimenti delle forme pensionistiche complementari nell’economia italiana, ossia in titoli emessi da residenti in Italia e in immobili, sono complessivamente 38,6 miliardi di euro, in calo rispetto ai 40,4 miliardi del 2019. Essi formano il 23,8 % del totale, circa tre punti percentuali in meno dell’anno precedente per effetto della riduzione dei titoli di Stato italiani. In tutte le opzioni di investimento, i prodotti offerti dai PIP si confermano i più costosi.

 

I rendimenti (a confronto con quelli del TFR)

 

Con riferimento al decennio trascorso (da fine 2010 a fine 2020) caratterizzato da un andamento dei mercati finanziari complessivamente favorevole anche se non senza periodi di elevata volatilità, il rendimento medio annuo composto è stato del 3,6 per cento per i fondi negoziali e del 3,7 per i fondi aperti). Per i PIP si è attestato, rispettivamente, al 3,3 per cento per i prodotti unit linked e al 2,4 per le gestioni separate. Le differenze osservabili nei rendimenti medi decennali dipendono dalla diversa asset allocation adottata dalle forme pensionistiche oltre che dai differenti livelli di costi applicati dalle diverse tipologie di forma pensionistica.

Il tasso di rivalutazione medio annuo del TFR è stato pari all’1,8 per cento.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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