Bollettino ADAPT 2 marzo 2020, n. 9
Vogliamo chiamarla legge del contrappasso? Ma c’era da aspettarselo. Quando una società ed un sistema politico e sociale elevano a guida suprema dei propri atti la “percezione”, al posto dei duri dati della realtà, è normale che si affidino alla medesima linea di condotta in presenza di un’epidemia dal ceppo ancora sconosciuto. Il contagio dal Covid-19 (familiarmente definito Coronavirus) è stato “percepito” come particolarmente grave senza esserlo, almeno più di altre patologie infettive, a cominciare da quella “influenza di stagione” che, come dice la canzone, uccide “di folle tenerezza” e quindi viene accettata senza essere accompagnata da un panico tanto diffuso quanto irrazionale.
Chi scrive non è convinto della necessità di fare tanto “baccano” (è il termine usato da un medico in una lettera su Il Foglio) per una patologia che – per quanto sconosciuta – risulta essere curabile con le terapie che sono a disposizione delle strutture sanitarie dei paesi sviluppati (verrebbe da chiedersi quali siano gli effetti del virus in India e in Africa, visto che non se ne parla).
Ma da errori come quelli compiuti nell’approccio alla malattia non si torna indietro, anche adesso i talk show hanno innestato la retromarcia. Dobbiamo aspettarci un inasprimento del “sovranismo” sanitario in parallelo con il diffondersi dei casi di contagio. Almeno questa esperienza servirà a far capire ad una opinione pubblica sobillata dall’Internazionale del populismo, che chiudere i confini non serve a nulla, perché anche gli altri paesi lo faranno dopo di noi. In questi giorni sperimentiamo sulla nostra pelle le conseguenze del “no, tu no!”, del suscitare la paura negli altri senza capirne il motivo.
Anche il lavoro è colpito dal virus, non sappiamo ancora quanto e per quanto. Le forze dell’economia e le loro rappresentanze se ne sono rese conto in pochi giorni ed hanno proiettato in un futuro prossimo le conseguenze che potrebbero determinarsi – entro un tempo molto breve – se il panico diventasse virale. “Dopo i primi giorni di emergenza, è ora importante valutare con equilibrio la situazione per procedere a una rapida normalizzazione, consentendo di riavviare tutte le attività ora bloccate e mettere in condizione le imprese e i lavoratori di tutti i territori di lavorare in modo proficuo e sicuro a beneficio del Paese, evitando di diffondere sui mezzi di informazione una immagine e una percezione, soprattutto nei confronti dei partner internazionali, che rischia di danneggiare durevolmente il nostro Made in Italy e il turismo”.
Lo affermano in una nota congiunta Cgil, Cisl, Uil, Confindustria, Coldiretti, Confagricoltura, Confapi, Abi e Rete Imprese Italia: praticamente tutto il mondo del lavoro e dell’impresa. Ed essendo organizzazioni serie dirette da persone altrettanto serie e responsabili, esse si rifiutano di “sparare sulla Croce rossa:” “Nei giorni scorsi – è scritto nel documento – sono state tempestivamente assunte diverse misure per contenere il rischio sanitario a beneficio di tutti i cittadini. Gli esperti e le organizzazioni internazionali, a partire dall’OMS, ci hanno rassicurato sui rischi del virus e sulle corrette prassi per gestire questa situazione, che tutti noi siamo chiamati a rispettare”. Le imprese più avvedute, ritenendosi responsabili della sicurezza e della salute delle maestranze, hanno disposto persino delle regole di comportamento. E si sono avvalse, nella misura del possibile, di rapporti di lavoro (come il telelavoro e lo smart working) pensati per conciliare altre esigenze, ma divenuti convertibili al fine di poter prestare la propria opera al riparo dal contagio.
Con la prontezza che lo contraddistingue, Adapt ha messo a disposizione, in un breve lasso di tempo, una sorta di codice del lavoro ai tempi del Coronavirus, allo scopo – come afferma Michele Tiraboschi nell’editoriale di presentazione – di trovare soluzioni di buon senso e tecnicamente compatibili con le reali esigenze di imprese e lavoratori. Questo tenendo presente che le esigenze sono variegate perché si passa dai settori e dalle professioni in prima linea nel contenere il virus (medici, infermieri, personale di pubblica sicurezza, ma anche giornalisti e addetti alla informazione che sono oggi impegnati ben oltre i normali orari di lavoro ecc.), ai settori più colpiti o sensibili vuoi per intervento della pubblica autorità (esercizi pubblici, teatri, musei, scuole, università), vuoi per la situazione di allarme che si è creata fuori e dentro il Paese (turismo, agenzie di viaggi, alberghi, ristoranti, attrazioni) vuoi per l’esposizione alle situazioni di rischio (trasporti, mobilità), vuoi per la pressione esercitata dalla situazione di preoccupazione creata nella opinione pubblica e nei consumatori (il settore alimentare), vuoi infine per l’estrema vulnerabilità delle catene globali del valore (il settore automotive e dell’elettronica in particolare e tutte quelle attività che ruotano attorno a forniture provenienti dalla Cina). E questo anche senza dimenticare settori destrutturati o di difficile regolazione giuridica, come i servizi di cura e assistenza alla persona e alle famiglie, che si svolgono spesso in forme non regolari e comunque con alto tasso di informalità, o anche le catene degli appalti e dei subappalti che spostano e scaricano inesorabilmente il rischio sull’anello debole della catena.
Si tratta di “vasto programma”, che cammina tuttavia sul ripristino di rapporti commerciali internazionali aperti. Fino a quando il mondo sarà vittima di una crisi di nervi come l’attuale è assai improbabile che un paese si salvi da solo. In queste giornate dominate dalla paura del presente e dall’incertezza del futuro mi sono ricordato di alcune considerazioni contenute nel saggio di Enrico Moretti (La nuova geografia del lavoro). Moretti cita il caso dell’iPhone, un prodotto ad altissimo livello di tecnologia, costituito da centinaia di componenti elettronici sofisticati, unici e delicati. Eppure – scrive Moretti – i lavoratori americani entrano in gioco solo nella fase iniziale dell’innovazione. Il resto del processo, compresa la fabbricazione dei componenti elettronici più complessi, è stato completamente delocalizzato all’estero.
L’iPhone viene concepito e progettato da ingegneri della Apple a Copertino in California. Questa è la sola fase “americana” nella fabbricazione del prodotto e consiste nel desing, nello sviluppo del software e dell’hardware, nella gestione commerciale e nelle altre operazioni ad alto valore aggiunto. In questo stadio, il costo del lavoro è un problema secondario. Gli elementi-chiave sono la creatività e l’inventiva degli ingegneri e dei designer. I componenti e i circuiti elettronici sono fabbricati oltreoceano a Singapore o a Taiwan. Arriva poi la fase dell’assemblaggio e della produzione vera e propria.
È questa la tappa che richiede più alta intensità di manodopera, in cui, pertanto, la componente costo del lavoro assume un qualche rilievo. Proprio per ridurre questo costo, la lavorazione dell’iPhone sbarca in Cina, in una fabbrica alla periferia di Shenzhen che è forse la più grande al mondo con i suoi 400mila dipendenti. Così a chi compra il prodotto on line, esso viene spedito da questo kombinat che, più che ad una fabbrica, somiglia ad una città, con supermercati, cinema, dormitori, campi sportivi. L’iPhone è formato da 634 componenti, ma la maggior parte del valore aggiunto proviene dalla originalità dell’idea, dalla progettazione ingegneristica e dal desing. La Apple ha un utile di 321 dollari per ogni iPhone venduto, pari al 65% del totale e ben più di qualsiasi fornitore di componenti. Eppure – ricorda Enrico Moretti – l’unico lavoratore americano che tocca il prodotto finale è l’addetto alle consegne dell’UPS.
Ecco come viene spiegato il modello di divisione internazionale del lavoro nell’economia della globalizzazione. La Cina non è solo il “grande mercato”, ma anche la “grande fabbrica” del mondo. È il più importante acquirente e il più grande produttore. Se dura l’attuale crisi (e non si vede come possa uscire dal tunnel) si corre allora un rischio doppio: che crollino gli acquisti, ma anche i prodotti. Se la grande fabbrica cinese chiude a causa dell’epidemia, l’iPhone rimane un’idea disseminata in 634 componenti che non servono a nulla.
Membro del Comitato scientifico ADAPT