Politically (in)correct – Il progresso tecnologico non uccide il lavoro ma lo trasforma

Non capita spesso che arrivino segnali di ragionevolezza e di fiducia nel futuro, soprattutto per quanto riguarda la prospettiva del lavoro nell’ambito delle sfide provenienti dal progresso tecnologico.  Sembra sempre di assistere al film “Metropolis” nel quale, nell’ormai lontano 1925, Fritz Lang preconizzò un mondo del lavoro soggiogato da un’imponente processo di meccanizzazione tayloristica connotato da enormi e spaventosi impianti ai cui ritmi implacabili erano costretti ad attenersi gli esseri umani.

 

Il grande regista non poteva che sviluppare la sua immaginazione sulla base delle conoscenze scientifiche del suo tempo. Lo stesso facevano anni dopo i primi film di fantascienza nei quali anche le invasioni degli alieni facevano sfoggio di apparati meccanici. Eppure la tecnologia informatica ha cambiato il mondo, le condizioni di lavoro e le modalità della produzione e la stessa caratteristica dei prodotti. Basti pensare alla “Divisumma” una calcolatrice che costava quasi come un’automobile di piccola cilindrata, mentre oggi vi sono aggeggi che, delle stesse dimensioni di un soldo di cacio, non solo fanno le stesse operazioni, ma vengono regalati come pubblicità.

 

Ora si guarda con preoccupazione alla quarta rivoluzione industriale, all’avvento e alla diffusione della digitalizzazione e dell’automazione. Si tracciano scenari foschi, si descrivono notti in cui tutte le vacche saranno nere. Va di conseguenza apprezzato il tentativo in corso, nella Commissione Lavoro della Camera, di approvare il testo di una risoluzione (la prima firmataria è l’economista Irene Tinagli, già di Scelta civica ora del Pd, e se ne sta discutendo da quasi un biennio) che contesta le tesi correnti secondo le quali “l’innovazione tecnologica di cui si è testimoni oggi genererà crisi occupazionali, distruzione di massa di posti di lavoro e povertà diffusa”.  Ecco perché commentare questa iniziativa è attinente al carattere di una rubrica dal titolo “politically(in)correct”.

 

La bozza ora sottoposta a consultazione mette le carte in tavola fin dal suo incipit: “la storia dell’umanità e del mondo del lavoro è stata attraversata da millenni di progresso tecnologico. Dalle prime tecnologie agricole alle macchine della rivoluzione industriale fino alla più recente diffusione dei personal computer e della digitalizzazione che ha fatto crescere esponenzialmente il terziario e i servizi. Nonostante i numerosi e profondi cambiamenti, il numero totale di posti di lavoro, al netto delle periodiche crisi economiche, è sempre andato aumentando; eppure da sempre, soprattutto nei periodi di crisi occupazionale, l’innovazione tecnologica viene da molti indicata come responsabile della distruzione di posti di lavoro”.

 

Come sostiene Irene Tinagli in un suo saggio “l’avvento dei computer e dell’information technology negli anni Settanta ha travolto migliaia di lavori impiegatizi: ragionieri, stenografi, segretarie, archivisti e documentaristi, e molti altri ancora. Eppure nei soli Stati Uniti – continua Tinagli –  il settore dell’Information Technology che nel 1970 occupava quattrocentocinquanta mila lavoratori, trent’anni dopo ne impiegava quattro milioni e seicento mila, vedendo fiorire al proprio interno una dozzina di figure professionali diverse rispetto al semplice programmatore che esisteva negli anni ‘70. Lasciarsi andare al catastrofismo non è il modo migliore per impiegare il nostro tempo. La questione da affrontare oggi, invece, è come prepararci alla transizione e come far sì che le innovazioni da minaccia possano diventare una opportunità, agevolando la creazione di nuovo lavoro e rendere meno dolorosa la transizione”.

 

“Eppure l’innovazione tecnologica viene accusata – prosegue il testo – di rendere obsoleti i lavoratori non solo perché in grado di realizzare macchine che possono svolgere le stesse mansioni svolte dagli uomini, ma perché, avendo solitamente come effetto quello di aumentare la produttività delle imprese, si ritiene provochi una ulteriore riduzione del fabbisogno di manodopera. Citando le analisi di autorevoli economisti, nella bozza Tinagli, si sostiene che “solo se l’impresa decide di «congelare» interamente gli incrementi di produttività senza alterare il proprio modello competitivo e quindi senza reinvestire in nuova capacità produttiva si avrà una perdita netta di lavoro. Ma se, come accade tipicamente, l’impresa traduce gli incrementi di produttività in nuova strategia competitiva, per esempio abbassando il prezzo di vendita e aumentando la quota di mercato e la produzione, in tal caso si tende ad avere un aumento di occupazione”.

 

I miglioramenti di produttività ottenuti tramite innovazione tecnologica, inoltre, solitamente si traducono non solo in un aumento di produzione ma anche in altre tipologie di investimento: in maggior ricerca e sviluppo, in miglior comunicazione, pubblicità, distribuzione, qualità del servizio al cliente e così via, trasferendo risorse ad altri settori produttivi (ricerca, servizi professionali, trasporti e logistica, software, design e altro) e generando anche in tali settori nuovi posti di lavoro. Nei quarant’anni tra il 1970 e il 2009 — anni di profondissima trasformazione tecnologica ed economia – l’industria italiana ha perso circa un milione di posti di lavoro, l’agricoltura un altro milione, ma i servizi ne hanno creati circa cinque milioni.

 

La bozza di risoluzione aggiunge poi che le previsioni sulle dinamiche occupazionali andrebbero accompagnate da un’attenta lettura dei trend demografici. Il declino dei tassi di natalità nei Paesi sviluppati, infatti, contrarrà la quantità di forza lavoro disponibile del futuro. Il che renderà meno preoccupante un’eventuale contrazione della domanda di lavoro, semplicemente perché anche l’offerta si andrà progressivamente restringendo. Le stime dell’organizzazione internazionale per il lavoro (ILO) indicano che la forza lavoro globale nella fascia d’età tra i 5 e i 24 anni si sta contraendo di 4 milioni di unità ogni anno; e secondo alcuni economisti la contrazione dell’offerta di manodopera sarà superiore alla contrazione della domanda, dando luogo a delle «labor shortages» che saranno sempre più significative. Di fatto, già oggi numerosi settori stanno denunciando difficoltà a reperire manodopera, soprattutto quella più specializzata e qualificata: nel 2014 le richieste di lavoratori con competenze matematiche ed informatiche negli Stati Uniti sono state 5 volte superiori alla disponibilità di lavoratori disoccupati con quelle caratteristiche. Anche in Italia rilevazioni come per esempio quelle di Unioncamere sulle previsioni di assunzione delle imprese (rilevazione Excelsior) denunciano una forte difficoltà delle imprese a trovare alcuni profili professionali, in particolar modo quelli con elevate competenze tecniche ed informatiche. Assinform stima che in Italia nei prossimi 5 anni ci sarà una richiesta di 170mila persone con competenze informatiche specifiche, per cui non si ha il sistema di preparazione necessario. La trasformazione del sistema economico-produttivo farà inoltre aumentare anche la domanda di alcuni profili professionali meno specializzati, come i collaboratori domestici o gli autotrasportatori.

 

Appare evidente, quindi, che più che una «scomparsa» di lavori, il cambiamento tecnologico e l’innovazione determinino via via una «sostituzione» di alcuni lavori con altri;
in sintesi, la maggior parte degli studiosi, economisti, demografi e altri osservatori sono concordi nel sostenere che l’innovazione tecnologica in sé e per sé (al netto, quindi, delle crisi e dei cicli economici più profondi) non ha mai comportato nel medio-lungo periodo conseguenze occupazionali negative, né ritengono possa comportarne in futuro.
Tuttavia – ricordiamo di nuovo il caso del film ‘’Metropolis’’ – è sempre molto difficile fare previsioni per il futuro in contesti, come quello dell’innovazione tecnologica, che cambiano in modo rapido e spesso imprevedibile. Alcuni analisti temono, per esempio, che la natura dell’innovazione tecnologica attualmente in corso (come per esempio gli enormi progressi sul fronte dell’intelligenza artificiale) possano avere inediti effetti sulla forza lavoro, incluso quella più qualificata, dal momento che la scarsità di studi e analisi scientifiche in materia rendono difficile valutare l’effettivo impatto delle future tecnologie e gli eventuali effetti di sostituzione nel futuro mercato del lavoro.

 

Inoltre, il fatto che in una prospettiva di ampio respiro l’innovazione non rappresenti un pericolo per i tassi di occupazione complessivi non significa che nel breve periodo e in determinati settori produttivi essa non possa avere effetti anche dirompenti, soprattutto per quei lavoratori che non posseggano le competenze e le qualifiche necessarie per ricollocarsi facilmente e in tempi brevi in nuove occupazioni e in settori emergenti. Le differenze nella velocità con cui sistemi produttivi da un lato e istituzioni e mercato del lavoro dall’altro si adattano alle nuove tecnologie (molto più rapidi i primi, più lenti e disomogenei i secondi) possono dar luogo a grandi difficoltà per migliaia di persone, con ripercussioni profonde non solo sulle loro famiglie ma anche, seppur in via temporanea, su variabili economiche rilevanti come i consumi e la spesa sociale per ammortizzatori. Senza contare che, nei periodi di transizione legati a forti cambiamenti tecnologici, la scarsità di manodopera qualificata in grado di rispondere alle nuove esigenze tipicamente causa un aumento delle retribuzioni per questa fascia ristretta di lavoratori a fronte di un calo delle retribuzioni e dell’occupazione per gli altri, facendo aumentare, per un certo lasso di tempo, i tassi di diseguaglianza.

 

In sostanza, le incertezze sull’evoluzione della tecnologia e del mercato del lavoro, nonché i disagi e le problematiche individuali e collettive che i periodi di transizione produttiva e tecnologica possono portare con sé, seppur temporanei sono problematiche rilevanti.

 

Tra i possibili interventi ipotizzati nel corso degli anni – ricorda ancora il documento – si è diffusa l’idea di una riduzione dell’orario di lavoro come metodo per far fronte agli incrementi di produttività che riducessero la necessità di manodopera, ispirandosi al principio «lavorare meno lavorare tutti»; misure di questo genere – viene sottolineato nel testo -sono state adottate in Paesi come la Francia (nel 1982 e nel 1998) e la Germania (negli anni tra il 1984 e il 1994). Purtroppo però le riduzioni di orario imposte per via normativa ad interi sistemi produttivi non hanno portato i risultati sperati. Anzi, come hanno mostrato numerosi studi, in alcuni casi hanno persino finito per provocare un incremento della disoccupazione (legata al fatto che, per poter mantenere lo stesso livello di retribuzione mensile, lavoratori e sindacati avevano negoziato un salario orario più elevato, determinando così un incremento del costo del lavoro dell’azienda che finiva per licenziare o sostituire i lavoratori con manodopera meno qualificata e meno costosa); in altri casi hanno provocato un incremento dei secondi lavori o del lavoro nero, e nessun miglioramento delle condizioni di lavoro.

 

L’unico elemento che, fino ad oggi, emerge sistematicamente come cruciale nell’attenuazione dei fenomeni di spiazzamento e sostituzione nel mercato del lavoro è dato dall’istruzione e dalla formazione. Numerosi studi mostrano come l’istruzione sia l’unico fattore in grado di attutire l’effetto dei cambiamenti produttivi e tecnologici sui lavoratori: lavoratori con più elevati livelli di istruzioni sono meno indifesi di fronte alle innovazioni tecnologiche e a un mercato del lavoro sempre più competitivo. Scrive ancora Tinagli nel saggio citato: “non possiamo sapere con certezza, oggi, quali e quante nuove occupazioni si creeranno. Ma possiamo fare qualcos’altro. Possiamo ragionevolmente prevedere, già oggi, quali settori e quali occupazioni subiranno maggiormente l’impatto delle nuove tecnologie e quali mansioni sono a maggior rischio di automazione. E su quello possiamo anzi dobbiamo intervenire con delle misure specifiche di formazione dei lavoratori da un lato, e di sostegno agli investimenti innovativi che sostengano la competitività dell’industria dall’altro. Perché se freniamo gli investimenti innovativi (come vorrebbe fare chi propone di “tassare i robot”) rischiamo solo di rendere meno competitive le nostre imprese, e di provocare crisi occupazionali molto più gravi”.

 

“Purtroppo in Italia come in molti altri Paesi europei –  si nota nel documento –  la ricerca sugli sviluppi tecnologici ed il loro impatto sul sistema produttivo è molto scarsa, gli investimenti per l’ammodernamento tecnologico delle imprese nel quadro della cosiddetta «Industria 4.0» sono molto inferiori a quelli di molti competitor europei, e lo scollamento tra sistema della produzione, sistema dell’istruzione e della formazione professionale resta ancora molto profondo.

 

Dopo aver dato ampio risalto ad alcuni brani (non avremmo potuto scriverli meglio di quanto abbiano fatto i redattori del testo), ricordiamo che il documento si conclude – come tutte le risoluzioni – indicando gli impegni che dovrebbe assumere il Governo. Ma noi consideriamo più importanti ed interessanti l’analisi del fenomeno innovazione e la presa di posizione – senza nascondere i problemi – a suo favore. Il che rappresenta certamente un impegno ad affrontare, come è necessario, una vera e propria sfida culturale, per mantenere aperta una prospettiva nel ‘’tempo degli Unni’’ in cui stiamo vivendo..

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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