Bollettino ADAPT 27 settembre 2021, n. 33
Intervenendo all’Assemblea della Confindustria Mario Draghi ha condiviso la proposta di Carlo Bonomi e ha rivolto un appello alle parti sociali ad avviare un percorso comune nell’ambito della gestione del PNRR e delle riforme che ne costituiscono il volano. Col solito stile sobrio ha voluto persino sfrondare quell’impegno dalle solite definizioni solenni; anziché adornarsi della parola patto, Draghi preferirebbe parlare di “una prospettiva economica condivisa”.
Il premier oltre a valorizzare lo sforzo compiuto sulla via della ripresa, ha voluto ricordare che si tratta di un rimbalzo anche se atteso in proporzioni minori; che siamo ancora al di sotto dei quasi 9 punti di Pil perduti in 100 giorni nel 2020; che permangono e si sono aggiunte criticità da non sottovalutare: dagli effetti della variante Delta ai segnali di ripartenza dell’inflazione contrassegnata dai costi delle materie prime, dalle carenze delle forniture, dai prezzi in aumento dell’energia, dei servizi e degli input intermedi. Si tratta quindi – secondo Draghi – di consolidare la crescita. “Non sappiamo ancora – ha aggiunto – se questa ripresa dell’inflazione sia transitoria o permanente. Se dovesse rivelarsi duratura, sarà particolarmente importante incrementare il tasso di crescita della produttività, per evitare il rischio di perdita di competitività internazionale”. Ed è qui che casca l’asino. Perché – ha ricordato Draghi – nel 2019, il nostro reddito pro capite era fermo al livello di venti anni prima, mentre nello stesso periodo, la produttività totale dei fattori è diminuita di più del 4%, mentre in Germania è aumentata di oltre il 10% e in Francia di quasi il 7%. “Le buone relazioni industriali – secondo il premier – sono il pilastro di questa unità produttiva”.
Qui Mario Draghi si è cimentato con le caratteristiche dell’economia del secondo dopoguerra, quando l’Italia, in pochi anni, seppe condurre un Paese distrutto sulla via del c.d. miracolo economico. Ho l’impressione che questa parte del discorso (l’ultima) non sia stata compresa e valutata nella sua importanza e nella indubbia novità; ma Draghi ha riscritto di sana pianta la storia corrente delle relazioni industriali nel nostro Paese. Vi sarebbe così un’apparente somiglianza tra la situazione di oggi e quella dell’immediato dopoguerra. “C’è stata una catastrofe come allora, c’è una forte ripresa come allora, con dei tassi che credo abbiamo visto soltanto in quegli anni; i tassi di crescita di oggi li abbiamo visti forse negli anni 60, sicuramente negli anni 50”. Dobbiamo chiederci – ha suggerito il presidente – perché quei tassi di crescita sono stati interrotti a partire dagli anni ‘70. E parte da qui la descrizione delle mutazioni del quadro internazionale che hanno “rotto il giocattolo”:, l’abbandono del sistema di Bretton Woods, il prezzo del petrolio, due guerre, la fine della guerra in Vietnam, la grande inflazione. Tutta via, in questo quadro internazionale così difficile alcuni Paesi hanno affrontato con successo una situazione tanto complessa. Al nostro Paese non è riuscita un’operazione di analoghe dimensioni. “E’ una caratteristica che separa questi paesi dall’Italia – sottolinea il premier – è proprio il sistema di relazioni industriali. In questi Paesi le relazioni industriali, pur stimolate, pur stressate da quello che avveniva intorno, sono state relazioni industriali buone. Da noi, col finire degli anni 60, invece si assiste alla totale distruzione delle relazioni industriali”. Con queste considerazioni Draghi ci invita a “veder l’erba dalla parte delle radici”.
La storiografia ufficiale delle relazioni industriali attribuisce una grande capacità di innovazione ai rinnovi contrattuali dell’autunno caldo, dai quali prende l’avvio una stagione di grandi conquiste, accompagnate da una conflittualità spesso esasperata. Come i passeggeri di una mongolfiera bucata i sindacati credono di andare più veloci, mentre invece stanno precipitando. I lacci in cui fu imprigionato – in quel decennio – il sistema produttivo non sono ancora stati sciolti del tutto, dal momento che una parte consistente del sindacato ritiene tuttora che quello fosse il tempo in cui la classe lavoratrice aveva scalato il cielo del potere politico e contrattuale. E’ convinzione diffusa che, da quel momento, i rapporti di forza siano cambiati in peggio a scapito dei diritti dei lavoratori. E che questa sia ancora – magari come regressione – la cultura dei sindacati italiani appare evidente osservando le loro rivendicazioni in materia di lavoro e di pensioni.
Membro del Comitato scientifico ADAPT