Politically (in)correct – La classe operaia non va più in Paradiso

Bollettino ADAPT 12 dicembre 2022, n. 43

 

“O Libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome!”. Furono queste le ultime parole di Madame Roland, l’esponente girondina, ai piedi della ghigliottina. L’immagine è fosca; forse è solo la manifestazione di uno stato d’animo di un (più che) anziano signore che si intristisce a seguire la povertà del dibattito in corso nella sinistra politica e sindacale dove ha trascorso tanta parte della sua vita. La parola magica è il Lavoro, a cui si aggiungono tanti aggettivi qualificativi che denotano la visione con cui ciascuno guarda, dall’angolo di visuale della sua ideologia, a questa attività che distingue la presenza, l’opera dell’essere umano sulla terra.

 

Lavoro stabile, sicuro, tutelato oppure temporaneo, precario, privo di diritti. Lavoro che c’è, lavoro che manca. Lavoro rifiutato, lavoro povero, lavoro qualificato, “lavoretto”. Oppure lavoro “decente” come lo definiscono le istituzioni internazionali, indicandone così quella caratteristica che non dovrebbe mancare mai in tutte le tipologie dei rapporti di lavoro. Ecco. In nome del lavoro si commettono analisi sbagliate, politiche inadeguate, si falliscono gli obiettivi; ma si dà corso anche a momenti di demagogia che travalicano la realtà riducendola alla mercé di una ideologia o a strumento di una battaglia politica.

 

Il lavoro è un tema genetico della sinistra e intorno ad esso i partiti storici delle classi lavoratrici si interrogano sul loro rapporto con i lavoratori che è in crisi in tutte le società sviluppate, in particolare in Europa, tanto che l’elettorato tradizionale della gauche si è spostato a destra. Conosciamo la narrazione di Maurizio Landini: “negli ultimi anni – va dicendo il segretario della Cgil – il mondo del lavoro, le lavoratrici e i lavoratori, i precari, i giovani non sono stati ascoltati. E addirittura le politiche fatte, in molti casi sia da governi di destra sia da governi che si richiamavano alla sinistra, hanno peggiorato la condizione di vita e di lavoro delle persone”. Quest’analisi ha addirittura indotto Landini a rilasciare qualche dichiarazione di apparente neutralità durante l’ultima competizione elettorale, pur in vista di una vittoria di una maggioranza di destra.

 

Non è la prima volta che il leader sindacale manifesta una sua particolare “dottrina”: non importa se gli iscritti alla Cgil votano numerosi per i partiti di destra o populisti, quando si riconoscono nelle politiche del sindacato, in nome di interessi e istanze comuni a tutti i lavoratori. Ovviamente la questione rimbalza sui partiti di sinistra, i quali – diversamente dal sindacato – hanno a che fare con elettori che dispongono di una sola identità da usare al momento del voto. Nessuno si chiede, però, per quali motivi settori importanti delle classi lavoratrici hanno abbandonato la sinistra e saltato il fosso dall’altra parte. In verità, secondo una interpretazione classista dei rapporti politici e sociali coloro che votano per FdI o per la Lega, non passano “dalla parte dei padroni”: anzi, ambedue le formazioni combattono un  nemico comune a settori della sinistra: la società aperta nella quale le libertà politiche sono l’altra faccia della medaglia di quelle economiche; il neoliberismo e la globalizzazione a cui si reagisce o retroagendo nel sovranismo e nell’autarchia o inseguendo la chimera di “un altro mondo è possibile”. Quale è la “colpa’’ della sinistra? Perché ha perduto il mandato di rappresentanza delle classi lavoratrici? I gruppi dirigenti – questa è la diagnosi del complesso di colpa – per logiche di potere o per smarrimento culturale, sono stati affascinati e si sono lasciati coinvolgere dal neoliberismo (anzi, questa è nuova: dall’ordoliberismo) e si sono resi complici di politiche economiche che hanno annichilito i diritti dei lavoratori. Pertanto, occorre tornare alle origini, ai valori della sinistra per andare a riprendersi quel popolo che non ci crede più.

 

Quando sento questi discorsi, mi torna sempre in mente l’Astolfo di Ludovico Ariosto che va sulla Luna a recuperare il senno di Orlando. Fuor di metafora, la tesi è: tocca ai partiti di sinistra adottare politiche adeguate a rappresentare il mondo del lavoro. Il sillogismo a questo punto ha una logica impeccabile: o è la destra che si è messa a portare avanti politiche di sinistra oppure è la sinistra che deve adeguarsi alle politiche di destra. Sempre che ci sia qualcuno in grado di fare questa distinzione. In un vecchio film di Marco Tullio Giordana “Maledetti vi amerò” (1980) un ex militante dell’estremismo di sinistra, dopo anni di latitanza all’estero, ritorna in Italia e trova tutto cambiato. In una scena del film il protagonista si interroga sulla trasformazione del significato delle parole, scoprendo che quelle di sinistra sono diventate di destra e viceversa. Ma forse non c’è bisogno di mettersi a giocare ai quattro cantoni per andare al nodo dei problemi. La globalizzazione ha sconvolto i tradizionali equilibri e la divisione internazionale del lavoro, ha travolto le salvaguardie protezionistiche, ha innalzato la competitività a parametro fondamentale della nuova “ricchezza delle nazioni”? Certo. ma come ha scritto Italo Calvino l’inferno non è nel mondo dei morti, ma in quello dei viventi. La globalizzazione è l’inferno? Se è così come ha scritto Calvino: “Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. La sinistra riformista è accusata di aver subito il primo dei modi.

 

Ammesso e non concesso che sia vero, la revisione corretta e possibile non è quella di abbandonare l’inferno alla ricerca di “un altro mondo” ma di cercare in mezzo all’inferno ciò che inferno non è. Poi, diciamoci la verità: quando mai e quali politiche “hanno peggiorato – come sostiene Landini – la condizione di vita e di lavoro delle persone’’? Non ha senso demolire per primi ciò di cui ci si dovrebbe vantare e mettere all’indice quegli esponenti politici e sindacali che, nello svolgimento del loro ruolo, hanno conseguito dei risultati importanti nell’economia, nel lavoro, nel welfare e nel campo (minato) dei diritti civili.

 

Oggi, andando alla ricerca del tempo perduto, ci si interroga se sia più di sinistra un progetto compiuto di riforma del mercato del lavoro come il Jobs act o un’avventura legislativa, veramente inservibile, come il decreto dignità. Tony Blair ha governato per dieci anni nel Regno Unito, ma è considerato il principale responsabile della crisi della sinistra in Europa. Durante la campagna elettorale fu proprio Enrico Letta a sconfessare un’intera stagione di egemonia della sinistra riformista: “Il programma del Pd supera finalmente il Jobs Act, sul modello di quanto fatto in Spagna contro il lavoro povero e precario. Il blairismo è archiviato. In tutta Europa sono rimasti solo Renzi e Calenda ad agitarlo come un feticcio ideologico”. Per stare nel campo del lavoro è stato più innovativo il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici del 2016 improntato sul diritto individuale alla formazione e sul primato della contrattazione decentrata o quelli successivi del “rétourn à la normale”? È più innovativo il progetto di irreggimentazione legislativa (dalla rappresentanza all’estensione erga omnes dei contratti di categoria, al salario minimo legale) che ha dominato il dibattito nell’ultima legislatura o il modello imperniato sull’autonomia dei grandi soggetti collettivi contenuto – casualmente? – nella mozione di maggioranza approvata dalla Camera?

 

Bisogna convincersi che la tradizionale contrapposizione capitale/lavoro sul piano economico, destra/sinistra su quello politico, non coincidono più con quella di conservazione/innovazione. Il compito della sinistra oggi è quello di unificare e rappresentare un blocco di forze dell’impresa, del lavoro, della ricerca e della cultura, che siano innovative, cosmopolite, aperte alle nuove tecnologie, competenti e competitive, assicurando loro l’eguaglianza delle opportunità e premiando la loro capacità di crescere sotto la tutela della loro professionalità. È una selezione da compiere con il bisturi o il cacciavite all’interno dei diversi corpi sociali, non con l’accetta che spacca in due parti le società entrambe colluse con il virus della conservazione. E non si tratta di discriminare o di scegliere, ma di essere scelti in ragione di un messaggio di cambiamento. La società del merito, delle responsabilità e dei doveri non è estranea a quella dei bisogni. Ma non concede nulla alla devianza del “dirittismo” (“utile fé licito in sua legge’’), perché una società giusta non può essere una notte in cui tutte le vacche sono nere. Ralf Dahrendorf, il sociologo tedesco naturalizzato inglese, citava, come esempio da non seguire, quello che lui chiamava il “paradosso Martinez, dal nome di un ex ministro del governo sandinista, il quale sosteneva che ai suoi tempi in Nicaragua c’era più eguaglianza, perché erano tutti poveri.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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