Politically (in)correct – La denatalità e l’invecchiamento: il declino di una nazione

Bollettino ADAPT 17 maggio 2021, n. 19

 

Da tanto tempo gli italiani non sono più un popolo di santi, poeti e navigatori. Tra qualche decennio cesseranno anche di essere un popolo. È questo il grido di dolore avvertito durante gli Stati Generali sulla natalità. “Un’Italia senza figli è un’Italia che non ha posto per il futuro, che lentamente finisce di esistere”. Ha affermato il presidente del Consiglio, Mario Draghi nel suo intervento al Convegno”. Dopo il premier – che ha illustrato i provvedimenti che il governo ha assunto, tra cui l’assegno unico universale per ciascun figlio e il piano nazionale per gli asili nido – ha preso la parola Papa Francesco il quale, dopo aver elogiato il governo per le misure adottate, ha proseguito con queste parole: “Se le famiglie non sono al centro del presente, non ci sarà̀ futuro; ma se le famiglie ripartono, tutto riparte”.

 

I dati sulla (de)natalità sono inquietanti: nel 1974, quando erano in corso le celebrazioni dell’anno mondiale della popolazione, sembrava impossibile che, nell’arco di qualche decennio, si sarebbe affacciata la prospettiva della crescita zero (anzi, sotto zero). In quell’anno vi furono circa 900mila bambini nati vivi. Nel 2010, sono stati 550mila (grazie anche al contributo degli stranieri residenti). Nel 2020, solo 404mila, il dato più basso nella storia del Paese (un altro record che aggiungiamo a quello del debito pubblico). L’Istat stima che, quest’anno, le nascite saranno ancora meno (394mila circa). “Sempre nel 2020 – ha ricordato ancora Draghi – la differenza tra nascite e morti ha toccato un record negativo: 340mila persone in meno. Oggi metà degli italiani ha almeno 47 anni, l’età mediana più alta d’Europa”.

 

In sostanza, in un tempo che nella storia dell’umanità è breve, quasi impercettibile, come il battito di ali di una farfalla, la denatalità ha preso il sopravvento anche nelle aree meridionali tradizionalmente più attive sul piano demografico ed ha “integrato” gli stranieri residenti i quali, per un certo numero di anni, hanno contribuito a compensare la vocazione alla “sterilità” volontaria della popolazione indigena. Si attribuisce a questo fenomeno una spiegazione prevalentemente di natura economica che ha certamente un’importante rilevanza; ma si sottovalutano – ad avviso di chi scrive – altri aspetti cruciali che chiamano in causa stili di vita, valori, attitudini, culture e che costituiscono un impedimento effettivo ad invertire l’attuale declino prima che sia troppo tardi. Soprattutto si evita di mettere in relazione il fenomeno della denatalità con quello dell’invecchiamento: il loro effetto congiunto sta destabilizzando in maniera crescente la struttura della popolazione con inevitabili conseguenze sugli equilibri dei sistemi di sicurezza sociale e del mercato del lavoro.

 

È persino banale far notare che per decenni – d’ora in avanti – le generazioni che seguono continueranno ad essere meno numerose di quelle precedenti. Basta considerare questa prospettiva per rendersi conto di quanto sia priva di senso una politica pensionistica, imperniata sulla riduzione dell’età effettiva di quiescenza alla decorrenza, con l’obiettivo di favorire l’esodo anticipato delle coorti più numerose, quando quelle che seguono non possono garantirne la sostituzione per il semplice fatto che non vi sono numeri adeguati. Certo, mettiamo pure in conto tutto: la disoccupazione, gli investimenti in tecnologie a risparmio di lavoro, lo sviluppo dell’automazione, l’ingresso più consistente delle donne nel mercato del lavoro, l’apporto di un maggior numero di immigrati; ma alla fine i conti non tornano e i “buchi” si vedono.

 

Negli ultimi 20 anni il numero dei giovani italiani fino ai 29 anni si è quasi dimezzato, passando da poco meno di 30 milioni a poco più della metà. D’altra parte, già dal 1971 al 2010 il numero degli anziani (65 e più anni) è raddoppiato (da 6 a 12 milioni), mentre è quadruplicato quello dei vecchi (85 e più anni). La pandemia ha lasciato sicuramente dei segni anche sulla struttura della popolazione e sull’aspettativa di vita: il 2020 è stato un momento di cesura, poiché d’ora in avanti, per un congruo arco di tempo, gli anni si distingueranno tra “prima” e “dopo” l’emergenza sanitaria. Ma come abbiamo visto gli effetti della crisi si sono avvertiti più sulle nascite che sui decessi. Quanto è emerso dagli Stati Generali sulla natalità non può essere ignorato nell’ambito del confronto sulle pensioni che i sindacati hanno richiesto al governo, proponendo una piattaforma “fuori mercato”. Allo stesso modo deve cambiare l’approccio culturale e politico nei confronti dell’immigrazione. Con gli attuali trend demografici l’economia del Paese avrà sempre più bisogno di stranieri per ricostruire i ranghi sgominati dai trend della demografia. Ma la copertura del fabbisogno non può essere lasciata alla spontaneità dei natanti di fortuna; deve essere organizzata e condivisa con i Paesi di provenienza e rivolta a realizzare veri e propri processi di integrazione, rispondenti alle esigenze effettive della nostra società. È essenziale tuttavia dotarsi di una visione d’insieme delle sfide da affrontare e smettere di dedicarsi a ciascun problema a giorni alterni e in modo contraddittorio; come i problemi se non fossero interdipendenti tra loro.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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