Bollettino ADAPT 21 febbraio 2022, n. 7
La Federmeccanica (l’organizzazione delle imprese metalmeccaniche aderenti alla Confindustria) ha celebrato i suoi “primi cinquant’anni” con la pubblicazione di un ampio saggio intitolato Dalla prima alla quarta rivoluzione industriale. La storia delle relazioni industriali dei metalmeccanici. Il volume raccoglie – dopo le presentazioni del presidente e del direttore generale dell’associazione – i saggi di importanti giuslavoristi e studiosi di relazioni industriali, coordinati in quello iniziale da uno scritto di Tiziano Treu, ora presidente del CNEL (dopo aver ricoperto altri ruoli istituzionali di ministro e parlamentare); allora, cinquant’anni or sono, testimone dell’ingresso di Federmeccanica tra i protagonisti del mondo del lavoro. È stato proprio Treu ad inviarmi una copia in omaggio; il che mi ha fatto molto piacere perché – come vedremo – fu la Federmeccanica a farci conoscere, lavorare insieme e stabilire un’amicizia che – con alti e bassi – è durata fino ad oggi.
Tiziano ed io, nell’anno in corso, abbiamo un alto impegno comune: quello di ricordare il ventennale dell’assassinio di Marco Biagi, amico fraterno di entrambi. Tutto ciò premesso, in questa rubrica non intendo cimentarmi con una recensione del libro (che è già contenuta nel saggio iniziale di Treu). Voglio dare spazio alla memoria e risalire a quel 1971, quando da componente della segreteria nazionale della FLM (di provenienza FIOM) assistetti all’annuncio che gli industriali metalmeccanici, il 15 settembre, avevano costituito un’associazione di categoria. In proposito occorre ricordare che, prima di allora, la rappresentanza degli imprenditori del settore – in sede di negoziato per il rinnovo del contratto nazione – era esercitata da una delegazione indicata dalla Confindustria, guidata dal presidente in carica (io sono riuscito a vedere il mitico Angelo Costa dall’altra parte del tavolo), ma diretta, solitamente, da due persone il direttore di Assolombarda e il capo del personale della Fiat. Così fu fino allo storico rinnovo del 1969 iniziato nell’autunno caldo e concluso pochi giorni prima di Natale, con la mediazione del ministro (altro pezzo di storia) Carlo Donat Cattin (Gino Giugni fu il suo principale collaboratore). L’associazione era presieduta da un imprenditore di cui non ricordo il nome, mentre direttore generale era Giuliano Valle che proveniva dall’Olivetti. Ma l’uomo forte era Felice Mortillaro, responsabile delle relazioni industriali, un manager che proveniva dalle PPSS, colto, preparato, brillante. Qualche anno fu nominato direttore generale, un incarico che ricoprì fino alla morte prematura, qualificandosi come un protagonista delle relazioni industriale. Aveva la fama di radicale, di negoziatore duro (Ottaviano Del Turco lo definiva, con una discutibile battuta, “il medioevo minuto per minuto”, facendo il verso ad una trasmissione televisiva sul campionato di calcio, allora molto seguita); in verità faceva con anticipo delle considerazioni che qualche anno dopo sarebbero divenute opinioni correnti.
Nel 1972 iniziarono le schermaglie per il rinnovo del contratto (che fu sottoscritto nel febbraio dell’anno successivo). La segreteria della FLM si aspettava una nuova offensiva sulla c.d. premessa del contratto (che dal 1963 disciplinava il rapporto tra contrattazione nazionale e decentrata) e che era stato il vero casus belli del rinnovo del 1969. Ci eravamo preparati a difendere la nostra posizione, anche sul piano giuridico, in un convegno organizzato nell’Università di Bologna a cui presero parte importanti giuslavoristi, tra i quali Tiziano Treu, Federico Mancini e Gino Giugni. Treu svolse una relazione sulle rappresentanze sindacali in azienda. Lo statuto dei lavoratori aveva previsto la possibilità di costituire le RSA, mentre la FLM era impegnata nell’ elezione dei consigli dei delegati eletti da tutti i lavoratori iscritti e non iscritti. Quella scelta aveva aperto un dibattito, in primo luogo all’interno del sindacato e del variopinto mondo della sinistra di allora, dove alcune componenti consideravano questi organismi come espressione autonoma della classe operaia e non le strutture di base del sindacato. Per anni il tema del sindacato, associazione di iscritti o movimento di lavoratori, è stato al centro del dibattito sulla natura del sindacato stesso, e, a dire il vero qualche traccia è rimasta nel dna delle confederazioni storiche.
Anche nel mondo imprenditoriale – che per lungo tempo si era opposto al riconoscimento di una rappresentanza sindacale in azienda, limitandosi ai tradizionali rapporti con le commissioni interne – vi erano delle resistenze nei confronti di queste nuove forme organizzative che pretendevano di unificare in un solo soggetto collettivo la rappresentanza degli iscritti e dei lavoratori. Ricordo nettamente che Treu ed io ragionammo insieme per individuare un argomento giuridico forte per sostenere le tesi sindacali, accorgendoci bene presto che si trattava di una sorta di uovo di Colombo (per fortuna allora non esisteva la cancel culture): i consigli di fabbrica erano le strutture di base unitarie del sindacato, il quale, nella sua autonomia organizzativa, garantita dal comma 1 dell’articolo 39 Cost., chiamava ad esprimersi attraverso il voto anche i lavoratori non iscritti. Mancini e Giugni affrontarono l’argomento centrale del convegno (gli atti furono pubblicati dall’editore De Donato): la questione della “premessa” ovvero degli ambiti della contrattazione articolata in relazione a quella nazionale di categoria. Quando iniziarono le trattative – la FLM aveva schierato al tavolo i più prestigiosi giuslavoristi – ci accorgemmo che eravamo incorsi in un falso allarme. La Federmeccanica non sollevò neppure il problema; anzi, a rinnovo avvenuto, in sede di stesura, Mortillaro propose di eliminare quel brano (grondante ore di sciopero) dal testo del contratto. Nessuno, credo, lo ha mai evidenziato, ma una superpremessa fu introdotta, nel 1993, nel Protocollo negoziato tra governo, confederazioni sindacali e Confindustria, a valere per tutte le categorie, nel quale si stabilirono le funzioni affidate alla contrattazione nazionale (la difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni, dopo la sepoltura della ‘’scala mobile’’ avvenuta l’anno precedente) e alla contrattazione decentrata (la remunerazione della produttività).
Come nel 1969, anche nel 1973 l’accordo di rinnovo fu opera della mediazione del ministro del Lavoro che era il democristiano Dionigi Coppo ex segretario generale aggiunto della Cisl. La mediazione consisteva nel proporre dei testi che gli uffici del ministro redigevano consultando, nella misura del possibile e riservatamente, le parti; poi erano sottoposti come proposte “da prendere o lasciare’”. L’aspetto più significativo di quel rinnovo (oltre al diritto allo studio, noto come le c.d.150 ore) fu il c.d. inquadramento unico, consistente in un progetto di classificazione in cui le qualifiche operaie e quelle impiegatizie erano valutate per la loro capacità professionale e non per il loro status. L’allineamento degli operai nei confronti degli impiegati avvenne in due punti: l’operaio qualificato agganciato al medesimo parametro dell’impiegato d’ordine, mentre un gruppo ulteriormente selezionato di operai specializzati (i c.d. superspecializzati) era intersecato con taluni profili di impiegati di livello elevato. Questa operazione diede luogo a un lungo e accurato lavoro di stesura e di definizione delle declaratorie e di nuovi profili professionali, nonché a una vera e propria ristrutturazione del contratto. La parte normativa comune divenne più ampia, mentre restarono separate le residue differenze attribuite alle tre grandi categorie degli operai, degli impiegati e dei c.d. equiparati (l’inquadramento unico, infatti, non aveva modificato il differente stato giuridico che connotava gli impiegati rispetto agli operai).
Nel contesto di questa ristrutturazione era prevista anche un’azione di “pulizia” e di adeguamento alla giurisprudenza delle norme contrattuali (il cui testo era in larga misura quello ereditato dal periodo corporativo). Furono costituite due commissioni: una sulla classificazione; l’altra, sulla ristrutturazione e la pulizia del contratto. A seguito di alcune dinamiche interne io e Tiziano Treu ci trovammo (insieme a dirigenti sindacali provenienti dai più importanti uffici vertenze e ad alcuni legali tra cui Bruno Cossu) a rappresentare la FLM, mentre Felice Mortillaro era a capo della delegazione della Federmeccanica (ricordo che per la Fiat era presente un giovane dirigente, Paolo Annibaldi, che in seguito divenne direttore generale della Confindustria mentre suo fratello Cesare per molti anni fu al vertice delle relazioni industriali del gruppo di Torino).
Per me fu una esperienza molto importante (avevo 32 anni), l’ultima compiuta prima di chiudere l’esperienza nella FIOM, il sindacato in cui ho lavorato nei nove anni più significativi della sua storia del dopoguerra (e della mia vita). Con Felice Mortillaro si stabilì un rapporto ovviamente competitivo, ma basato su di un crescente reciproco rispetto, che a conclusione di quel negoziato proseguì anche negli anni successivi. Con Treu ho avuto altre occasioni di incontro e collaborazione (fu anche il mio ministro) nel corso dei cinquant’anni che vengono raccontati nel volume di Federmeccanica. Mi piace ricordare che Tiziano mi invitò alla Università cattolica di Milano, dove insegnava, per spiegare, in un corso organizzato nel quadro delle 150 ore, la vicenda di cui eravamo stati protagonisti. Nel 2010 Tiziano ed io preparammo un disegno di legge per la riforma delle pensioni che presentammo, io come primo firmatario alla Camera, lui al Senato, benché appartenenti non solo a partiti, ma a schieramenti diversi e avversari. Un progetto che avrebbe meritato maggior fortuna.
Membro del Comitato scientifico ADAPT