Bollettino ADAPT 28 giugno 2021, n. 25
La Pubblica Amministrazione si trova nella condizione di un player a cui è stato affidato un ruolo decisivo a conquistare la vittoria della squadra. Così, prima che inizi la “partita della vita” i suoi compagni lo incoraggiano e lo esortano ad eseguire la prestazione che tutti si aspettano. Il nostro ascolta e ringrazia (tra sé e sé si chiede se non lo stiano prendendo in giro o se non si preparino ad attribuire solo a lui l’eventuale sconfitta della squadra). Comunque – conscio di quante volte in passato è transitato in un batter d’occhio dalle stelle alle stalle – resta in prudente attesa degli eventi.
Il PNRR ha messo il dito nella piaga: “La debole capacità amministrativa del settore pubblico italiano – è scritto nel documento – ha rappresentato un ostacolo al miglioramento dei servizi offerti e agli investimenti pubblici negli ultimi anni”. Il PNRR affronta questa rigidità promuovendo un’ambiziosa agenda di riforme per la Pubblica Amministrazione, a sua volta rafforzata dalla digitalizzazione dei processi e dei servizi, dal rafforzamento della capacità gestionale e dalla fornitura dell’assistenza tecnica necessaria alle amministrazioni centrali e locali, che sono fondamentali per promuovere un utilizzo rapido ed efficiente delle risorse pubbliche.
Uno dei lasciti più preziosi del PNRR – ecco la svolta di carattere strutturale – deve essere l’aumento permanente dell’efficienza della Pubblica Amministrazione e della sua capacità di decidere e mettere a punto progetti innovativi, accompagnandoli dalla selezione e progettazione fino alla realizzazione finale. Di tutto ciò rende quotidiana testimonianza un volitivo ministro come Renato Brunetta, il quale, commentando il Patto Governo Sindacati del marzo scorso, ha dichiarato: “La firma del Patto assegna alla coesione sociale non una semplice ripetizione retorica, ma un valore fondante di uno Stato che si rinnova, si modernizza sul valore della persona e della partecipazione”. Ma esiste un PA in grado di compiere il salto di qualità necessario per mettersi al traino di tale processo? Anche volendo considerare un incidente il sostanziale fallimento del concorso bandito dal ministro Brunetta per 2.800 posti riservati a lavoratori di elevata professionalità da destinare negli uffici del Mezzogiorno in cui mancano le competenze per impostare e seguire l’esecuzione dei progetti, vi sono nella PA limiti che non si superano in un periodo di sei anni, quelli in cui il Paese sarà chiamato a gestire le risorse del NGEU.
È stato pubblicato di recente il Rapporto ARAN per il secondo semestre del 2020, che non si limita solo al tema delle retribuzioni, ma coglie l’occasione per una radiografia del pubblico impiego dalla quale emergono molti spunti di riflessione. Cominciamo dai numeri. Dei 3,2 milioni di occupati della PA un numero ben oltre 1 milione si trova nel settore Scuola, mentre poco circa 125mila persone operano nelle università, negli enti di ricerca, nelle accademie e nei conservatori. Sommando i due numeri, si ha che, complessivamente, nei settori della conoscenza sono impiegate quasi 1,3 milioni pari a circa il 40% del totale.
Un numero attorno a 650mila lavora nel Servizio Sanitario Nazionale, circa 500mila nelle regioni, negli enti locali e nelle camere di commercio (di cui poco meno di 90mila nelle regioni a statuto speciale): si ottiene, pertanto, che poco più di 1,1 milioni di persone (35% circa) sono impiegate nell’ambito del sistema regionale e delle autonomie. Nelle amministrazioni centrali tra Ministeri, Enti nazionali, Agenzie, Authority sono collocati circa 250mila dipendenti. Infine, 520mila persone operano nelle Forze armate, nei Corpi di polizia e nei Vigili del fuoco. Il gruppo professionale (omogeneo) più numeroso è quello dei professori, docenti ed educatori, con poco più di un milione di persone di cui circa 960mila insegnanti scolastici. Quest’ultimo dato comprende i 20mila insegnanti delle regioni a statuto speciale, nonché le unità di personale educativo e scolastico degli enti locali, che opera prevalentemente nei nidi e nelle scuole dell’infanzia. Al complesso si aggiungono poi i 7mila docenti di accademie e conservatori ed i 45mila professori e ricercatori universitari. Nel corso del decennio 2009-2019 è questo il gruppo che, nel suo insieme, in cui si è avuta la crescita più sostenuta, con quasi 100mila unità aggiuntive.
Il Rapporto, dopo aver passato in rassegna altri blocchi omogenei si sofferma una rassegna su di un ultimo gruppo, dalle caratteristiche professionali meno definite, che, convenzionalmente, viene indicato come “Amministrativi e tecnici”, conta più di un milione di persone e come tale costituisce il raggruppamento più numeroso. “È abbastanza evidente – secondo il Rapporto – la centralità di questo bacino, che rappresenta appunto l’ossatura fondante la macchina burocratica, quella che – l’affermazione è impegnativa – dovrà sostenere il compito di dare attuazione al PNRR”. In queste più ampie categorie o aree, sono confluite – avverte il Rapporto – le precedenti qualifiche funzionali, come ridefinite a partire dal 1999. Un tratto comune, che attraversa le diverse aree, è il “fatto che il tipo di formazione scolastica richiesta per l’accesso dal mercato del lavoro esterno, mediante concorso, è lo stesso all’interno di ciascuna area o categoria”. Alcune richiedono il possesso della laurea, altre quello del diploma di istruzione secondaria superiore ed infine altre ancora per le quali è sufficiente l’assolvimento dell’obbligo scolastico. Prima ancora di osservare l’effettiva corrispondenza dei titoli di studio degli “amministratori e tecnici” a quelli richiesti per le diverse posizioni professionali, è molto più significativo sul primo di questi aspetti ovvero su quali erano e sono i titoli di studio richiesti per accedere ai concorsi. Sull’intero aggregato di 1,14 milioni di persone, risultano nettamente prevalenti i lavori che richiedono diploma o obbligo scolastico, con un valore superiore ai ¾. Di questa ampia frazione, una quota maggiore – pari al 41% del totale – richiede il diploma.
Da questa prima tavola, emerge l’immagine di una pubblica amministrazione con molti lavori a bassa o media qualificazione professionale. “Il che suggerisce – afferma con un certo grado di sconforto l’ARAN – anche la prevalenza di assetti che, a dispetto dell’innovazione tecnologica e della tanto auspicata evoluzione degli approcci, continuano ad essere definiti secondo una impostazione datata, la cui configurazione non ha subito negli anni sostanziali modifiche, se non forse qualche peggioramento. In effetti – prosegue il Rapporto – confrontando la distribuzione del 2019 con quella del 2012 si vede una diminuzione della incidenza dei laureati, in parte compensata da una maggiore quota delle posizioni da diplomati3. Resta tuttavia il fatto che nel quinquennio il bacino professionale degli Amministrativi e tecnici ha “perso” oltre 47 mila laureati”.
Ma l’aspetto che lascia interdetti è il seguente: Il comparto Scuola – ferma restando l’esclusione dall’analisi della componente docente e della conseguente focalizzazione sui soli processi di funzionamento e di supporto- è quello che evidenzia la quota più bassa di lavori richiedenti la laurea (2%) e la più alta di lavori richiedenti l’assolvimento dell’obbligo scolastico (65%). Si tratta, evidentemente, di una distribuzione che – sottolinea il Rapporto – risente della configurazione tipica delle organizzazioni scolastiche, nella quale l’attività di supporto si concentra su due principali processi: l’attività di custodia ed esecutiva svolta dai “collaboratori scolastici” (ex-bidelli), l’attività amministrativa, svolta per lo più da personale impiegatizio “diplomato”. Coerentemente con questa natura strutturale del “processo produttivo” non si osservano grandi diversità fra il 2012 ed il 2019. Il Rapporto ARAN fornisce anche i dati anche del disallineamento tra titoli di studio richiesti e posseduti evidenziando una differenza che non è di poco conto: le 276.000 lauree necessarie per le posizioni lavorative degli addetti Amministrativi e tecnici nel 2019 sono maggiori di circa 20 mila rispetto a quelle di fatto possedute.
Dopo aver individuato nell’ambito dei sistemi di reclutamento i motivi principali del disallineamento, l’ARAN tenta di salvarsi in corner: “È usuale esprimere tali disallineamenti in termini di overeducation o undereducation. Per apprezzare correttamente la valenza di queste definizioni va chiarito che l’esistenza di un disallineamento non è di per sé annoverabile tra le “patologie”. Occorre considerare – spiega il Rapporto – che nelle diverse posizioni lavorative, il capitale umano è costituito non solo dall’istruzione, ma anche dall’esperienza lavorativa e dalle abilità pratiche. In altre parole, un fenomeno di “educational mismatch” – conclude il Rapporto – non necessariamente indica un problema di “skill mismatch”: ciò, naturalmente, nella misura in cui la mancanza del livello di istruzione richiesta sia compensata da esperienze ed abilità pratiche acquisite sul lavoro”.
Membro del Comitato scientifico ADAPT