Bollettino ADAPT 13 giugno 2022, n. 23
Con la presentazione della Relazione istituzionale dell’attività svolta nel 2021 dalla Commissione di vigilanza sui fondi pensione (COVIP), è tornato a farsi vivo il tema della previdenza complementare a capitalizzazione, il cui stato di salute può essere riassunto con le parole di Galileo Galilei: “Eppure si muove”. Certamente, quello del grande scienziato era un tono di conferma e di compiacimento; il nostro è più di rassegnata consolazione nel constatare che il settore, sul cui sviluppo si nutrivano tante speranze nell’ambito di una riforma del sistema pensionistico, “tira a campare” nonostante che sia stato abbandonato dalla politica (e dai sindacati?). Da molti anni mancano iniziative di promozione e sviluppo; anzi i rendimenti sono stati sottoposti ad una fiscalità ossessiva, mentre, nell’attuale legislatura, nella legge di bilancio per il 2019, sono state messe a rischio, nel tentativo di favorire la previdenza obbligatoria, alcune timide misure di sostegno e incoraggiamento per il finanziamento dei fondi pensione disposti con la legge Dini (legge n.335/1995).
Che ci fosse un pregiudizio nei confronti della previdenza privata lo si notava leggendo l’articolo 21 relativo alla «esclusione opzionale dal massimale contributivo dei lavoratori che prestano servizio in settori in cui non sono attive forme di previdenza complementare compartecipate dal datore di lavoro». Che cosa significava questa norma? Nel sistema contributivo – diversamente dal retributivo – è vigente un massimale retributivo e contributivo – ora intorno ai 100 mila euro lordi l’anno – oltre il quale non sono previsti versamenti né effetti sul livello della pensione. In parole povere, non si paga né si riscuote. La riforma Dini, che introdusse questa norma, incoraggiava, con misure fiscali, i contribuenti a destinare le quote eccedenti il massimale alla previdenza complementare. Nel decreto in parola – sia pure in modo opzionale – si incoraggiava il lavoratore a rientrare con tutta la sua retribuzione nel sistema pubblico. Il che, peraltro, avrebbe potuto determinare anche un aumento del costo del lavoro per le imprese, tenute a versare i contributi pure per la quota eccedente. Vi era poi un’ulteriore questione che lasciava molti dubbi. Le risorse per l’implementazione della storia contributiva – d’intesa con il dipendente – potevano essere sostenute dal datore di lavoro, mettendole a carico dei premi di produzione dovuti. Il comma 4 dell’articolo 20 recitava, infatti, che «per i lavoratori del settore privato l’onere per il riscatto di cui al comma 1 può essere sostenuto dal datore di lavoro dell’assicurato destinando, a tal fine, i premi di produzione spettanti al lavoratore stesso». In tal caso, l’onere era deducibile dal reddito di impresa e da lavoro autonomo e, ai fini della determinazione dei redditi da lavoro dipendente e rientrava nell’ipotesi prevista per i contributi previdenziali e assistenziali versati dal datore di lavoro o dal lavoratore in ottemperanza a disposizioni di legge nonché per i contributi di assistenza sanitaria versati dal datore di lavoro o dal lavoratore a enti o casse aventi esclusivamente fine assistenziale in conformità a disposizioni di contratto o di accordo o di regolamento aziendale. In sostanza, non solo la contrattazione della produttività e del welfare aziendale non faceva più parte delle priorità del Governo Conte 1, ma le risorse a essa destinate al pari di quelle che avrebbero potuto alimentare il secondo pilastro (ove non fosse già istituito in forma bilaterale) venivano sacrificate sull’altare della previdenza obbligatoria.
Il tema del rilancio della previdenza privata è previsto nell’agenda del confronto tra il governo e i sindacati sulle pensioni, ma non sembra ancora esservi un quadro definito. In tale contesto – pur apprezzando la lenta ma costante marcia della previdenza complementare nelle sue diverse forme – non c’è da stupirsi se continuano a consolidarsi (come emergono in sintesi nella stessa relazione del presidente Mario Padula) talune deviazioni rispetto alle finalità che il legislatore attribuiva, fin dal 1993 (dlgs n.124) al secondo pilastro, nel quadro del riordino del sistema pensionistico.
Le adesioni
Gli iscritti alla previdenza complementare alla fine del 2021 sono 8,8 milioni, il 3,9% in più rispetto all’anno precedente. In percentuale delle forze di lavoro, il tasso di copertura si attesta al 34,7 %. A tale numero di iscritti corrisponde un totale di posizioni in essere a fine anno di 9,7 milioni, comprendendo anche le posizioni doppie o multiple che fanno capo allo stesso iscritto. Ma passando in rassegna le iscrizioni a ciascuna delle forme previste vengo in evidenza alcune tendenze meritevoli di considerazione.
Ai fondi negoziali sono iscritti 3,4 milioni di lavoratori, quasi 1,7 milioni aderiscono ai fondi aperti e 3,4 milioni ai PIP “nuovi”; 620.000 sono gli iscritti ai fondi preesistenti. Rispetto al 2020, l’aumento è stato del 5,8 % nei fondi negoziali; nelle forme di mercato, rispettivamente, del 6,5 % per i fondi aperti e del 2,9 % per i PIP “nuovi”. Anche se l’incremento % dei PIP è risultato inferiore a quello delle altre forme, il fatto che il numero dei sottoscrittori di queste polizze individuali di natura commerciale sia lo stesso dei fondi negoziali (includendo anche i circa 322.000 iscritti dei “vecchi” PIP ed escludendo le doppie iscrizioni tra PIP “nuovi” e “vecchi”, il segmento dei piani individuali di tipo assicurativo conta 3,724 milioni di aderenti), dimostra che esiste una domanda crescente di previdenza a capitalizzazione che non viene intercettata dalla contrattazione collettiva. Tale tendenza è confermata dalle iscrizioni dei lavoratori dipendenti alle diverse forme complementari: i lavoratori dipendenti (iscritti al sistema della previdenza complementare) sono 6,279 milioni, il 4,4% in più rispetto al 2020. Le forme collettive negoziali e preesistenti ne concentrano la quota maggiore (3,612 milioni); in quelle di mercato, i lavoratori dipendenti iscritti ai PIP “nuovi” (2,2 milioni) sono oltre il doppio di quelli iscritti ai fondi aperti (935mila).
Le iscrizioni
– per genere
La composizione degli iscritti per genere resta sbilanciata: gli uomini costituiscono il 61,8% del totale; negli ultimi cinque anni l’incidenza della componente femminile è aumentata di soli 0,5 punti percentuali. Nelle diverse forme pensionistiche, le donne sono sottorappresentate nei fondi negoziali (26,6%) rispetto alle forme di mercato – il dato è significativo – nelle quali vi è un maggiore equilibrio tra i generi (rispettivamente, 41,8% nei fondi aperti e 46,5 nei PIP). La più bassa partecipazione delle donne è spiegata in primo luogo dalla loro minore presenza tra le forze di lavoro. Considerando, infatti, la popolazione in età lavorativa (fasce di età 15-64 anni), il tasso di attività delle donne è in media il 55,4 % contro il 73,6% degli uomini. Una volta entrate nel mondo del lavoro, esse partecipano comunque alla previdenza complementare con una propensione inferiore a quella degli uomini: rispetto alle forze di lavoro, il tasso di partecipazione alla previdenza complementare delle donne è pari al 30,9% contro il 37,5% degli uomini. Pesano divari salariali e carriere più discontinue, che ostacolano l’apertura e il mantenimento di una posizione di previdenza complementare. Anche la contribuzione delle donne è, in media, inferiore a quella degli uomini: 2.430 euro rispetto a 2.910 euro, circa un quinto più bassa.
– per età
La distribuzione per età vede la predominanza delle classi intermedie e più prossime al pensionamento: il 50,3 % degli iscritti ha età compresa tra 35 e 54 anni, il 31,9% ha almeno 55 anni e solo il 17,8 % ha meno di 35 anni. Negli ultimi cinque anni, la percentuale della fascia di età più giovane è cresciuta di soli 0,4 punti percentuali mentre si è assistito a un progressivo spostamento dalle classi di età centrali a favore di quelle più anziane, aumentate di circa sei punti percentuali. Se si torna agli obiettivi iniziali della previdenza complementare (compensare le nuove generazioni per la minore copertura della previdenza obbligatoria) si conferma lo storico fallimento dell’operazione. Ma non è il caso di piangere sul latte versato: la previdenza privata non poteva che riflettere la composizione del mercato del lavoro. Il diverso coinvolgimento nel mercato del lavoro contribuisce, infatti, a spiegare le differenze nella partecipazione alla previdenza complementare per le classi di età, in particolare per quelle più giovani. Ad esempio, sempre considerando la popolazione in età lavorativa, il tasso di attività della fascia di età 25-34 anni è inferiore dell’8 % rispetto a quello della fascia adiacente più anziana (35-44 anni); la fascia di età più giovane fa registrare una partecipazione alla previdenza complementare circa un quinto più bassa della fascia relativamente più anziana. Considerando i versamenti contributivi, la fascia degli under 35 presenta una contribuzione pro-capite inferiore di circa il 40 % rispetto a quella delle fasce di età centrali (35-54 anni).
– per ripartizione territoriale
Osservando, infine, la residenza, la maggior parte degli iscritti è situata (more solito) nelle regioni del Nord, con il 57,2 % del totale. Rispetto alle forze di lavoro, il tasso di partecipazione si distribuisce in modo differente sul territorio nazionale rispecchiando, oltre alle scelte individuali, l’articolazione del tessuto produttivo e la struttura delle imprese nelle diverse aree geografiche. Il tasso di partecipazione supera la media nazionale nelle regioni settentrionali ed è ben oltre la media laddove l’offerta previdenziale è integrata da iniziative di tipo territoriale; valori più bassi e decisamente inferiori alla media si registrano, invece, in gran parte delle regioni meridionali. I divari nella partecipazione si riflettono anche nei livelli di contribuzione. Nelle regioni del Nord, le più ricche del Paese, le contribuzioni medie sono più elevate, e – nella maggior parte dei casi – al di sopra della media nazionale, con punte che arrivano fino a 3.400 euro. Si tratta di importi anche doppi se paragonati a gran parte delle regioni del Mezzogiorno.
Le risorse accumulate, i contributi raccolti
Le risorse complessivamente accumulate presso le forme pensionistiche complementari sono 213,3 miliardi di euro, il 7,8 % in più rispetto all’anno precedente; esse costituiscono il 12% del PIL e al 4,1 % delle attività finanziarie delle famiglie italiane. Tra le tipologie di forme pensionistiche, i fondi negoziali concentrano il 30,6% del totale delle risorse, i fondi aperti il 13,6% e i PIP il 24,1% nell’insieme; il peso dei fondi preesistenti è il più elevato, il 31,7 del totale, ancorché in riduzione rispetto alle forme di nuova istituzione. Nel corso del 2021 sono stati incassati contributi per 17,6 miliardi di euro, tornati a crescere su livelli precedenti la pandemia. Ne sono affluiti 5,8 miliardi ai fondi negoziali, in crescita del 5,5% rispetto al 2020; quelli destinati ai fondi aperti e ai PIP, 2,6 e 4,9 miliardi, sono aumentati, rispettivamente, del 12,7 e del 6,8 %. Per singolo iscritto, i contributi ammontano mediamente a 2.790 euro. Un quarto degli iscritti contribuisce con meno di 1.000 euro. La percentuale è del 31,8% nei fondi negoziali, i tre quarti dei quali sono costituiti da lavoratori che versano meno di 200 euro all’anno. In massima parte, si tratta di iscritti con modalità contrattuale che destinano al proprio piano pensionistico il solo contributo minimo a carico del datore di lavoro. Il 14,2% degli iscritti versa tra 1.000 e 2.000 euro; il 10,2% tra 2.000 e 3.000 euro. Alle classi successive corrisponde una percentuale via via decrescente di iscritti; fa eccezione la fascia di 8 versamento tra 4.500 e 5.165 euro, che include il limite di deducibilità fiscale dei contributi, fissato dalla normativa in 5.164,57 euro, e che conta il 7,1% degli iscritti. Si tratta di iscritti concentrati soprattutto nei fondi aperti e nei PIP, caratterizzati da una quota maggiore di lavoratori autonomi, e nei fondi preesistenti, i cui iscritti dispongono di retribuzioni medie più elevate. La percentuale è di gran lunga inferiore nei fondi negoziali e al di sotto del limite di deducibilità fiscale, che risulta quindi fuori portata per gran parte degli iscritti a tali forme.
Le “anime morte”
Coloro che nel corso dell’anno non hanno effettuato versamenti contributivi sono complessivamente 2,4 milioni, il 27,2% del totale; rispetto al 2020, sono aumentati di 76.000 unità. Oltre un milione di individui non versa contributi da almeno cinque anni; per costoro la condizione di non versante ha ormai assunto natura strutturale ed è meno probabile il ripristino di una partecipazione attiva alla previdenza complementare. Nel considerare il fenomeno dei mancati versamenti, va anche osservato che su di esso incide in misura significativa il meccanismo delle adesioni contrattuali nei fondi negoziali, con particolare riguardo ad ambiti, come il settore edile, il cui bacino è caratterizzato da elevata discontinuità occupazionale.
Le prestazioni previdenziali
Le uscite per la gestione previdenziale totalizzano 11,4 miliardi di euro, registrando incrementi in tutte le principali voci. Sono state erogate prestazioni pensionistiche in capitale per 5,1 miliardi di euro e in rendita per circa 460 milioni di euro. Nell’anno sono stati corrisposti anche 1,3 miliardi di euro di rendite integrative temporanee anticipate (RITA), per lo più concentrate nei fondi pensione preesistenti. I riscatti ammontano a 2 miliardi di euro; le richieste di anticipazioni, a 2,3 miliardi di euro, per la maggior parte riferite a spese per l’acquisto o ristrutturazione della prima casa di abitazione.
Le considerazioni conclusive del presidente
La sostanziale stabilità degli iscritti e dei flussi contributivi anche in un sistema attraversato dall’emergenza sanitaria e dalle ricadute economico-finanziarie sul sistema produttivo nel suo complesso ha confermato – ha rilevato Mario Padula – che i fondi pensione accolgono platee di lavoratori forti. Si tratta prevalentemente di uomini, di età matura, residenti nel Nord del Paese, inseriti in imprese ragionevolmente più solide e in grado di dare continuità ai flussi di finanziamento. Donne, giovani, lavoratori delle aree meridionali continuano a essere in modo preoccupante più assenti dal settore della previdenza complementare; proprio quelle figure per le quali, appunto perché più fragili nelle loro condizioni di occupazione, è più urgente il bisogno anche di costruzione di un futuro previdenziale. Affrontare efficacemente tale tema è una priorità, per i fondi pensione e le parti sociali ma anche per il decisore politico. È in gioco il futuro del Paese, già messo a rischio ormai da tempo da una fase prolungata di bassa crescita economica, della produttività e dei redditi; da un mercato del lavoro che purtroppo troppo spesso fatica a realizzare le condizioni per una occupazione effettiva e di qualità e nel quale il confine tra lavoro dipendente e lavoro autonomo è reso più labile da fenomeni di dumping sociale; da un calo di natalità sempre più marcato che mette a rischio il patto generazionale su cui il Paese si fonda, specie negli effetti sul sistema pensionistico.
Da un punto di vista solo parzialmente diverso, un sistema previdenziale, in cui coesiste un pilastro a contribuzione obbligatoria e a ripartizione con uno a contribuzione volontaria e a capitalizzazione, è sostenibile, da un punto di vista finanziario e sociale, quando ciascuna componente svolge appieno la propria funzione. La previdenza complementare deve, appunto, completare la protezione offerta dalla previdenza di base, offrendo un’opportunità di integrazione delle prestazioni erogate da quest’ultima. Tale opportunità è tanto più ampiamente esercitabile quanto più ampia è la fascia di lavoratrici e lavoratori potenzialmente raggiungibili. Fenomeni di esclusione, tuttavia, si manifestano anche tra coloro che hanno un maggiore coinvolgimento nel mercato del lavoro. Le ragioni sono diverse. Tra queste, i dati ne segnalano una in modo particolare: adesioni e contribuzioni sono più basse nelle imprese più piccole e sono viceversa più alte nei settori caratterizzati da imprese di più grandi dimensioni. Un gradiente positivo, quello tra adesioni e contribuzioni da un lato e dimensione delle imprese dall’altro, che concorre a determinare la dimensione del sistema di previdenza complementare nel nostro Paese, il cui tessuto industriale è fittamente punteggiato da imprese piccole o piccolissime. A tale gradiente positivo non è estranea la previsione normativa che stabilisce che per le imprese con meno di 50 addetti il TFR non devoluto a previdenza complementare rimanga presso il datore di lavoro. In tale ottica, dal superamento di questa previsione normativa potrebbe derivare – secondo Padula – un nuovo impulso alla crescita del sistema.
Molto interessante nella relazione del Presidente l’individuazione delle cause che determinato una delle più evidenti discrepanze per quanto riguarda la prestazione. La logica del sistema dovrebbe portare all’erogazione della rendita come complemento del trattamento obbligatorio (a cui è collegata). È invece largamente prevalente la liquidazione sotto forma di capitale: il che è più rispondente (se si aggiungono anche le anticipazioni) ad una forma di risparmio gestito che di misura di carattere previdenziale. A pensarci bene, il solo Rita ha svolto questa funzione complementare dell’Ape sociale, una prestazione che – per altro – non è riconducibile ad una forma di previdenza.
Il favor per le rendite, che pure il sistema esprime limitando le possibilità di erogazione in capitale, ha trovato in questi anni – secondo il presidente – un ostacolo nella sostanziale assenza di un “mercato delle rendite pensionistiche” efficacemente competitivo. Se, da una parte, la primazia della rendita vitalizia risponde all’esigenza di assicurare il pensionato rispetto al rischio di longevità, consentendogli di contare su una entrata periodica fino al termine della propria vita, il costo associato a tali prodotti li rende purtroppo poco convenienti. Origina anche da qui, oltre che da valutazioni più soggettive, la scarsa propensione dei lavoratori a trasformare in rendita vitalizia la posizione previdenziale accumulata; minore propensione che rischia di estendersi tout court anche alla stessa partecipazione alla previdenza complementare. In tale contesto, la COVIP sta valutando spazi e modalità per contribuire a un migliore disegno delle prestazioni a scadenza. È infatti utile favorire la proposta di rendite diverse dalle rendite vitalizie tradizionali, che siano comunque in grado di mitigare il rischio di longevità.
Membro del Comitato scientifico ADAPT