Bollettino ADAPT 11 ottobre 2021, n. 35
Non c’è bisogno di andare troppo indietro nella storia per giudicare l’aggressione, il 9 ottobre, alla sede della Cgil nazionale. Basta risalire al 6 gennaio scorso quando a Washington venne preso d’assalto in Campidoglio. A Roma i manifestanti non sono arrivati ai Palazzi delle istituzioni della Repubblica perché le Forze dell’Ordine glielo hanno impedito, ma i segni delle loro intenzioni si sono visti alla Cgil, nelle devastazioni che hanno provocato dove sono riusciti ad arrivare. Quando si aggredisce una organizzazione sindacale si compie un atto eversivo, perché il sindacato, in una società democratica è una istituzione indispensabile della società civile. Come ha voluto testimoniare Mario Draghi nella telefonata a Maurizio Landini: “I sindacati sono un presidio fondamentale di democrazia e dei diritti dei lavoratori. Qualsiasi intimidazione nei loro confronti è inaccettabile e da respingere con assoluta fermezza”
Attenzione, però, a non sbagliare analisi e attribuire questi eventi ad una nostalgia del passato (come in fondo hanno fatto quei commentatori che hanno criticato la presenza in lista per le elezioni comunali a Roma di una nipote di Mussolini e osservato con preoccupazione il numero delle preferenze raccolte). Per analizzare questi fenomeni di violenza priva di motivi comprensibili che non si manifesta solo nel nostro Paese, ma, lo abbiamo ricordato all’inizio, nella più grande democrazia del mondo e – dove sono finiti i gilet gialli? – anche nella patria dei Lumi, come in altri Paesi civili e sviluppati, non basta evocare il fascismo (se non come definizione che la storia ha attribuito ai movimenti eversivi della prima metà del secolo scorso). Il fenomeno è più complesso e più nuovo, volendo anche bipartisan rispetto alle vecchie teorie degli estremismi radicali di destra e di sinistra. L’aspetto che maggiormente impressiona si trova nella narrazione che porta la gente in piazza a protestare in un’escalation che si avvita sempre più nella violenza. E che si nutre di credenze inattendibili, ma che riconducono sempre all’irrazionalità del fanatismo di massa. Magari scegliendo di volta in volta obiettivi differenti di malessere.
Per farla breve i no vax sono un movimento che somiglia di più ai Qanon o ai gilet gialli che non allo squadrismo fascista del primo dopoguerra (anche se agisce con gli stessi metodi e sotto la guida di caporioni di quella formazione). Rappresenta quindi un avversario di tipo nuovo che ha creduto in teorie pseudo scientifiche, spesso inventate e insostenibili, ma in grado di dare delle conferme di una visione deforme della realtà: i poteri forti, il profitto, la congiura, il dominio del mondo e quant’altro; tutti miti che semplificano la vita quotidiana con le sue difficoltà. Ma non è questa la sede per spingersi oltre in quest’analisi, che attiene comunque a questioni del lavoro.
Chi scrive ha assistito alle immagini delle violenze contro la Cgil con una sofferenza di carattere personale, per aver valicato nel corso di quasi trent’anni della propria vita, quella porta di Corso Italia sfondata con brutalità sabato scorso. Questo, pertanto, è il momento della solidarietà che deve prevalere su ogni altra considerazione. Solo un imbecille potrebbe azzardarsi a dire che “la Cgil un po’ se la è cercata”. Ma quel gruppo dirigente farebbe bene ad interrogarsi sulla linea di condotta seguita nei mesi scorsi. E’ stato Maurizio Landini a dare inizio alle ostilità nei confronti del green pass, come se fosse uno scarico di responsabilità del Parlamento sulle parti sociali; a contrapporre la certificazione verde alla vaccinazione obbligatoria, come se una norma siffatta avesse indotto i no vax a vaccinarsi; fino a rifugiarsi, quando la posizione della Cgil, spalleggiata dalle altre confederazioni, era divenuta insostenibile, ambigua ed isolata, nella linea Maginot dei tamponi (gratis per i lavoratori) come se questa fosse l’alternativa al green pass da incoraggiare. Ma in vista del 15 ottobre emergono difficoltà sottovalutate. Le aziende temono di dover gestire un numero di lavoratori ostili alla vaccinazione superiore ad ogni previsione e quindi di essere costrette a fare fronte a situazioni conflittuali nel controllo delle certificazioni; oltre naturalmente ai “buchi” negli organici, soprattutto per quanto riguarda i dipendenti stranieri. Analoghe difficoltà si ipotizzano nel mondo variegato delle colf e delle badanti.
Infine, le Regioni hanno avvertito che le strutture sanitarie non sono in grado di trasformarsi in una “fabbrica di tamponi”. Vi sono imprese che si dichiarano disposte a prendersi in carico il “servizio tamponi”; ma sono evidenti i problemi che verrebbero a crearsi in un’operazione che risponde prima di tutto ad un interesse pubblico e che fino ad ora è stata gestita come tale. Non vorremmo che il fronte della fermezza iniziasse a scricchiolare. Per esempio non ha molto senso stabilire per legge che la certificazione verde via tampone, anziché 48 ore, abbia valore per 72 ore. C’è una questione di validazione scientifica che non può essere elusa per motivi pratici. Poi esiste un enorme problema di comunicazione. È totalmente assente un’informazione di carattere istituzionale che spieghi i motivi delle scelte compiute. Adesso questa funzione la svolgono (avvelenando i pozzi del vivere civile) i social; e i talk show, convocando, come se dovesse essere garantita l’imparzialità, i pro e i no vax. Affidare come formarsi un’opinione alle “corride” televisive è una cosa priva di senso. Tanto più che i no vax possono giocare anche nel campo avverso, sottolineando i limiti, le difficoltà e le contraddizioni (praticamente inevitabili) della campagna di vaccinazione. Sono i problemi che emergono sempre quando si scontrano le realtà e la demagogia.
Membro del Comitato scientifico ADAPT