Quale è lo stereotipo televisivo del giovane italiano? Quello di un precario, condannato a restare tale, al punto che il suo gramo destino viene confermato, in questi ultimi giorni, anche dall’invio, da parte dell’Inps, della famosa ‘’busta arancione’’, attraverso la quale l’Istituto di via Ciro il Grande si trasforma in un chiromante che si sente in grado di predire ad un trentenne di oggi quale sarà la sua pensione quando, ultrasessantenne, uscirà dal mercato del lavoro.
L’incongruenza – di un’operazione soltanto mediatica, ed inutilmente dispendiosa – non sta tanto nel meccanismo di calcolo adottato per l’eventuale trattamento, quanto piuttosto il fatto che è sicuramente azzardato scrutare nella sfera di cristallo la vita delle persone. Chi pretende di ipotizzare, a tanta distanza di tempo, l’entità dell’assegno pensionistico di un soggetto, in realtà si assume anche l’arbitrio di prefigurarne la vita – non solo professionale – che lo attende (perché sarà essa a determinare quale sarà l’importo della sua pensione).
Naturalmente il nostro prototipo di giovane italiota, nella comune vulgata, è costretto a vivere ospite dei genitori, ad essere aiutato economicamente dai nonni attraverso la loro pensione (anche in questo caso la mano destra non sa che cosa combina la sinistra: non si capisce infatti come dei pensionati abitualmente presentati come poveri in canna, nel momento in cui sono costretti a recitare la loro parte in un’altra commedia, diventano improvvisamente dispensatori di aiuti economici ai nipoti). I giovani non si sposano perché non possono stipulare il mutuo per la casa in proprietà, non fanno figli perché non possono caricarsene sulle spalle la gravosa responsabilità. Negli ultimi anni è stata scritta una nuova puntata di questa storia: i giovani sono costretti ad emigrare per trovare lavoro. La Patria matrigna li costringe a cercare rifugio ‘’al di là del mare’’. La chiamano ‘’fuga dei cervelli’’ (anche se magari si scopre che a Londra i giovani vanno a fare i camerieri o i baristi, almeno come prime occasioni di lavoro).
Con quale tecnica comunicativa i talk show danno conto di tali situazioni ? Di solito evitano di misurarsi con le statistiche. Presentano dei casi personali trasformandoli così in vere proprie condizioni generali. Il giovane di cui si parla assurge ad esempio conclamato della condizione dei giovani. Nessuno gli chiede conto dell’esistenza di motivi specifici che hanno prodotto quella situazione soggettiva: essa esiste e basta. Consapevole (e critico) di questa prassi nel saggio ‘’Giovani al lavoro’’ (scritto insieme ad Angelo Pasquarella e ad Alessandra Servidori per Guerini e Associati) avevo raccontato anch’io un caso; la storia della famiglia Viesso, che riporto di seguito:
Il caso Viesso
Michael e Jennifer Viesso sono una coppia di americani italo-discendenti; nel 2012, da New York hanno scelto di venire ad abitare a Bologna. Il marito prima insegnava inglese in Corea del Sud. E faceva la spola da Seul a New York. A Bologna non sono venuti per questioni di lavoro. Hanno scelto di vivere in questa città per motivi di sicurezza, perché secondo loro non si possono allevare dei figli a New York City o più in generale negli Usa. Il lavoro lo hanno cercato e trovato dopo il loro arrivo in Italia. Sanno l’inglese, la lingua del mondo, e vivono di questa risorsa. Al momento dell’arrivo a Bologna avevano tre figli piccoli: Gabriela, Michael jr., Giuseppe (la signora ha 32 anni, un anno in più dell’età in cui le donne italiane, in media, partoriscono il primo figlio; il marito 42). Gabriela e Michael jr. sono stati iscritti senza tante storie alla Scuola elementare sotto casa e la frequentano con profitto. Nel periodo ‘italiano’ Jennifer e Michael sr. hanno scodellato una quarta figlia (Ginevra). Così hanno dovuto traslocare in un appartamento più grande. Li aiuta una giovane <tata> polacca, che parla correntemente l’inglese. Quando si è avvicinato il momento del parto è venuta dagli States la madre di lei. Non si sono posti il problema del mutuo o di avere un posto stabile. Se non è fiducia nella vita questa?
Scrivevo questa storia nel 2013. Perché ho deciso di tornare a raccontarla ? Sabato scorso, in autobus, ho incontrato i due Michael, padre e figlio. La famiglia si è trasferita in una cittadina della provincia. Il padre negli ultimi tempi ha aperto due scuole di inglese, mentre Jennifer, la madre, ha avviato un’iniziativa di child house. Quale è il senso di questa storia ? Molti degli stranieri che vengono da noi a cercare una migliore prospettiva di vita appartengono alle forze migliori delle loro comunità, spesso portano con sé livelli elevati di scolarizzazione, che magari noi non sappiamo utilizzare. Quanto al disagio personale, è più breve e meno oneroso il viaggio di rientro in famiglia – con un volo low cost – di un giovane che lavora a Londra di quello di un immigrato in Germania che rientrava, negli anni ’60, in un paesino del Sud magari approfittando di una licenza elettorale. Per non parlare delle grandi opportunità che Internet mette a disposizione per comunicare tra persone lontane migliaia di chilometri. Sono lontani i tempi in cui una ‘’vedova bianca’’ aspettava d’oltreoceano una lettera (sempre meno frequente) del marito emigrato e la portava al parroco per farsela leggere e per rispondere ‘’Io sto bene, come spero di te’’. Si replicherà a queste osservazioni che il ‘’cervello in fuga’’ porta il suo capitale umano in un altro Paese dopo essersi formato a nostre spese. Non proprio è così; è una fortuna poter portare altrove il nostro sapere e scambiarlo con quello degli altri.
Nell’economia globalizzata ciascun progresso scientifico ed economico diventa rapidamente patrimonio comune, anche se si è realizzato agli antipodi. I giovani d’oggi hanno più confidenza con il mondo, perché cominciano a viaggiare da bambini e non nella terza classe di un bastimento che attraversa l’Atlantico. Così la ‘’fuga dei cervelli’’ può diventare la ‘’banca dei cervelli’’: chi porta con sé le braccia può usarle solo sul posto; il lavoro del cervello può girare il mondo ed essere sempre lì, a due passi da casa. I giovani devono imparare a considerare l’albero che vedono dalla finestra della loro camera alla stregua di un segnale messo lì dal caso, ad indicare dove è nato un cittadino del mondo. Poi, chi se ne va al di là del mare, può sempre ritornare più ricco di esperienza ed avventura. ‘’Itaca ti ha dato il tuo bel viaggio. Senza Itaca – canta Costantino Kavafis – non saresti mai partito’’.
Membro del Comitato scientifico di ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus