Politically (in)correct – Le “150 ore” cinquant’anni dopo. E il futuro?

Bollettino ADAPT 17 aprile 2023, n. 15

 

Francesco Lauria lavora al mitico Centro Studi di Firenze della Cisl, la scuola da cui sono usciti i grandi dirigenti sindacali del passato e che ancora prepara i quadri che andranno a ricoprire – avvalendosi di una cultura di base di eccellenza – incarichi di direzione nelle categorie e nelle Unioni. Come me è un “nostalgico” del piccolo mondo antico del sindacalismo italiano. Con una differenza: io sono uno degli ultimi sopravvissuti di quell’epoca, ne sono stato un protagonista e ne sono un testimone diretto; Francesco è incuriosito e affascinato dalle esperienze e dalle personalità di quegli anni, tanto da volerne approfondire e diffondere la conoscenza.

 

Lauria ha dedicato anni alla storia di Pippo Morelli, senza averlo mai conosciuto di persona, se non occasionalmente quando Pippo vagava nel silenzio della malattia che lo aveva colpito.  Eppure Francesco scrisse su Pippo Morelli “Sapere Libertà Mondo. La strada di Pippo Morelli”; un libro di oltre 500 pagine, edito da Edizioni Lavoro, nel quale si racconta (vi è una prefazione di Bruno Manghi che lo conobbe e lo stimò) la vicenda umana di quello “storico” dirigente della Fim e della Cisl, morto nel 2013 dopo aver trascorso ben venti anni a scontare le conseguenze di un ictus che lo aveva reso inabile. Più recentemente Francesco si è occupato di Alberto Tridente un altro protagonista della leggendaria Fim di Pierre Carniti. La sfida culturale che spinge Lauria ad interrogare la memoria dei protagonisti di un passato glorioso, è attenta anche alle loro opere. Ovviamente, quando si parla di sindacato, non esiste mai un’idea brillante e di successo riconducibile ad una sola persona, ma questa idea è il risultato di un impegno collettivo o, quanto meno, di una cultura comune che fa da sfondo ad una particolare stagione sindacale. E, nel rivangare nel passato, si arriva sempre all’onda lunga dell’autunno caldo e all’epopea dei sindacati dei metalmeccanici che hanno contrassegnato un’epoca feconda di intuizioni e realizzazioni entrate a far parte del dna del sindacalismo italiano e tuttora ineguagliate per la profondità del loro contributo innovativo.

 

Nel suo ultimo saggio, Francesco Lauria ha voluto ricordare – in occasione del cinquantesimo anniversario – l’epica delle 150 ore. Nel contratto del 1972 (in realtà la data corretta è il 1973 perché la sottoscrizione definitiva venne effettuata il 19 aprile di quell’anno a conclusione di un lungo lavoro di ristrutturazione del contratto stesso e di definizione delle declaratorie e delle esemplificazioni dell’inquadramento unico) i sindacati dei metalmeccanici conquistarono il diritto a 150 ore pagate dalle imprese per quei lavoratori che volevano terminare la scuola dell’obbligo. Si trattò di una misura che consentì a centinaia di migliaia di lavoratori di completare un ciclo di studi. Fu la scuola pubblica a doversi adattare a queste esigenze. Lo fece un po’ all’italiana, arruolando personale docente straordinario (che poi, come sempre accade, fu stabilizzato), ma ci fu uno sforzo effettivo nella preparazione dei programmi per persone adulte. Il meccanismo funzionava così: ad ogni ora a carico dell’azienda un’altra doveva essere a carico del lavoratore; pertanto era richiesta una frequenza complessiva di 300 ore in un triennio. Ma la principale caratteristica di questa esperienza consisteva nel sentirsi protagonista di una “mission” che avrebbe migliorato la società nel suo complesso. In sostanza la partita non fu giocata nell’interesse delle imprese (anche se una maggiore scolarizzazione dei lavoratori avrebbe pur sempre determinato una qualificazione del lavoro stesso) e non ebbe una funzione che oggi chiameremmo “professionalizzante”; ma si limitò a consentire l’accesso a quel livello minimo di istruzione di cui ha diritto il cittadino in quanto tale. Fu un contributo a trasformare la frequenza della “scuola dell’obbligo” in un diritto di cittadinanza inclusivo.

 

L’esperienza delle 150 ore si estese attraverso la contrattazione collettiva; la relativa disciplina si è sviluppata in senso verticale assicurando le agevolazioni previste (in tutto o in parte) anche per conseguire altri titoli di studio. Il diritto pertanto è confluito all’interno di percorsi formativi individuali, riconducibili – mutatis mutandis – alla figura tradizionale dello studente-lavoratore.  Il nuovo saggio di Lauria (sempre per Edizioni Lavoro) “Le 150 ore per il diritto allo studio Analisi, memorie, echi di una straordinaria esperienza sindacale’’(con Prefazione di Bruno Manghi e Postfazione di Tullio De Mauro), va alla riscoperta di quella straordinaria operazione e tenta di individuare elementi in grado di servire alla messa in pratica di quel diritto alla formazione che – in un barlume di lucidità – le federazioni dei metalmeccanici riuscirono ad inserire nel rinnovo contrattuale del 2016. La stessa struttura del saggio presuppone questa evoluzione. La prima parte, infatti, è la riedizione di un testo pubblicato da Lauria nel 2012, riguardante l’esperienza delle 150 ore (e la prefazione di Bruno Manghi è un lungo ricordo personale di chi vi ha partecipato). Nella seconda parte, l’autore tenta il salto di qualità di mettere in sinergia il diritto soggettivo alla formazione con le esigenze strutturali di continuità nel corso di tutta la vita lavorativa.

 

Leggendo il saggio di Lauria capita di domandarsi per quali motivi di una vicenda tanto importante (peraltro divenuta normale routine nella contrattazione collettiva anche per consentire ai lavoratori la frequenza a corsi di studio superiori alla scuola dell’obbligo) a cinquant’anni di distanza non si parli in modo adeguato. Ad avviso dell’autore, “il fatto che la memoria di questa rilevante esperienza si sia in parte perduta è legato alla ragione che essa fu una pratica costruttiva e non conflittuale: si ricordano, infatti, più facilmente gli aspetti drammatici di divisione e di contrapposizione, rispetto alle dinamiche collaborative. In questo oblio non sono coinvolte solo le 150 ore, ci sono anche altre importanti vicende: si pensi, ad esempio, a tutto il lavoro comune tra il sindacato unitario, i delegati e le cliniche del lavoro in tema di nocività e salute e sicurezza, oggi sostanzialmente dimenticato”. Ed è una constatazione purtroppo vera. Basti pensare – è una nostra considerazione – che oggi i sindacati rivendicano una maggiore sicurezza sul lavoro mediante forme di controllo esterne e pubbliche, mentre non menzionano mai il ruolo che (non) svolgono i rappresentanti della sicurezza nelle aziende.

 

Sempre a proposito dell’esperienza delle 150 ore Lauria ricorda che Pierre Carniti (il vero demiurgo di questa particolare stagione della Cisl), nel 2012, a quarant’anni dalla conquista contrattuale, sosteneva con tono amaro: “Purtroppo quello delle 150 ore, insieme all’intero apporto sindacale nell’educazione e formazione degli adulti, è uno dei temi rimossi dalla memoria e dall’impegno sindacale. Perciò ricostruire orizzonti ideali, modalità, percorso, declino di quella decisiva esperienza collettiva che, dai metalmeccanici si estese a tutto il mondo del lavoro, pubblico e privato, e che ha coinvolto negli anni oltre un milione e mezzo di lavoratori, incidendo fortemente sulle loro conoscenze, sulle loro vite, sul movimento sindacale e sull’istituzione scolastica, non è un semplice esercizio di nostalgia”. Così l’autore viene indotto a chiedersi quali echi delle 150 ore in quella che, all’inizio degli anni duemila, era definita, un po’ pomposamente, con la Strategia di Lisbona, la «società della conoscenza» e che, oltre vent’anni dopo, si è confrontata con le sfide inedite poste dalla pandemia da Coronavirus, da una nuova guerra in Europa, dall’economia dell’interdipendenza digitale e delle catene globali del valore? È importante, nel fare memoria del passato, avere ben chiare le criticità e le peculiarità del tempo presente.

 

Come ci hanno insegnato anche le 150 ore – scrive l’autore – sono le idee, insieme alle intuizioni, ai suggerimenti, a muovere la macchina dell’innovazione in un’ottica partecipativa, di futuro. La «giusta» formazione può contribuire a superare questo molteplice e multidimensionale rischio concreto di isolamento. Pertanto, in un contesto in cui la flessibilità è troppo spesso identificata solo con la libertà di licenziare, costruire nuove tutele significa soprattutto promuovere, non a parole, una flessibilità positiva per i lavoratori, un loro rafforzamento nel mercato del lavoro e un riequilibrio tra riconoscimento delle competenze, opportunità, lotta alle diseguaglianze, risposte personalizzate, ma non individualistiche. La società della conoscenza, ci ha insegnato Bruno Trentin, per non essere un semplice slogan e uno specchietto delle allodole, necessita di un cambiamento culturale che deve poggiare su nuove infrastrutture sociali per l’occupabilità.

 

Anche adesso – è una nostra riflessione conclusiva – c’è la necessità di preparare il mondo del lavoro ad affrontare la quarta rivoluzione industriale con il suo carico di tecnologia avanzata, interrompendo il solito andazzo del ricorso agli esuberi e ai prepensionamenti del personale anziano e non più qualificato. Certo è facile scrivere delle norme innovative; più difficile è farle vivere nella realtà dove si è costretti a misurarsi con le difficoltà e le inadeguatezze delle strutture, dei servizi e delle persone stesse. Come sostenne Bruno Trentin nella sua laectio  doctoralis  a Ca’ Foscari  nel 2002: “A mio modesto avviso questa ideologia della flessibilità ha soltanto contribuito a consolidare le resistenze nei confronti del lavoro che cambia ed a nascondere l’enorme questione che sorge nell’era delle trasformazioni tecnologiche dell’informazione: quella della socializzazione della conoscenza, per impedire, con il digital divide, la creazione di un fossato sempre più profondo fra chi è incluso in un processo di apprendimento nel corso dell’intero arco della vita e chi è brutalmente escluso dal governo di questo processo. È facile vedere che questo diventa il problema maggiore per il futuro della democrazia’’.
 

Non si tratta, dunque, di concepire – come nella esperienza delle 150 ore – un meccanismo di accesso ad un livello di scolarizzazione che completa i diritti di cittadinanza; ma di avviare un processo di acquisizione di effettive competenze. Si passa, nell’arco di mezzo secolo, dal conseguire un titolo di studio che certifica l’assolvimento di un obbligo scolastico di base all’acquisizione effettiva di un “saper fare” che contribuisce a formare l’occupabilità di una persona. Si tratta di mettere in campo – con le Università – sedi di acquisizione di una nuova “alfabetizzazione” che non può più accontentarsi di saper scrivere, leggere e far di conto, ma che deve portare i lavoratori e i cittadini a familiarizzare con la digitalizzazione, le lingue straniere, la tutela dell’ambiente; in una parola a combattere l’analfabetismo della società di oggi.  E in questa prospettiva va ripensato anche il reddito di cittadinanza, perché – qui sta il fallimento della sua funzione di politica attiva – i percettori non saranno mai occupati fino a che non diverranno “occupabili”. In sostanza, non c’è soltanto da superare i limiti di un contesto economico difficile e gli strumenti di placement inadeguati, ma devono essere recuperate condizioni personali minime, ma indispensabili, per svolgere una prestazione lavorativa in un ambiente regolato e organizzato.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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