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Il 15 settembre è scattata l’ora X: è salva la pensione dei parlamentari eletti per la prima volta nella legislatura che sta volgendo al termine. Questa “non notizia” è finita su tutti i giornali (in taluni casi persino in apertura) e nel palinsesto dei tg, come se fosse capitata una disgrazia e si fosse scoperto un grave scandalo.
Ormai, pur di denunciare i “privilegi”, si è arrivati a raschiare il fondo del barile. Ne è un clamoroso esempio l’ostinazione ad ignorare – da parte delle “anime belle” assatanate – che il requisito minimo di cinque anni effettivi (all’età di vecchiaia e a condizione che il trattamento sia pari a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale) è uno dei pilastri del sistema contributivo per tutti coloro che sono interamente all’interno di questo regime. La denuncia dei vizi della “Casta” ha procurato notevoli successi professionali ed editoriali ad alcuni giornalisti, fino al punto di promuovere un fortunato filone di inchiesta, con tanti imitatori, che sembra destinato a non esaurirsi mai e a garantire l’audience delle fumerie di oppio dei talk show televisivi.
Quanto al disegno di legge Richetti (che si propone di ridefinire – secondo un ricalcolo contributivo approssimativo e in modo retroattivo – i vitalizi già erogati) è ormai diffusa la consapevolezza che, se anche dovesse arrivare in porto, sarebbe sanzionato per incostituzionalità. Ma la colpa della bocciatura, a sentire i commenti piccati, non sarebbe da attribuire ai volonterosi giovanotti che hanno preso, sbadatamente, l’iniziativa, ma alla Consulta se non addirittura alla Costituzione, che impediscono di smantellare gli odiosi privilegi. In sostanza, custodi dell’etica pubblica non sono più soltanto i magistrati (quelli delle Procure, visto che i giudici di solito smontano i teoremi accusatori “perché il fatto non sussiste”), ma i giornalisti della carta stampata (i signori e le signore “grandi firme”) e dei programmi televisivi.
Essendo il tema della previdenza la passione degli italiani si (s)parla delle pensioni di tutti tranne che di quelle dei giornalisti. Eppure i problemi ci sono; basterebbe andarli a cercare. L’ha fatto l’associazione LSDI (Libertà di stampa diritto all’informazione) in un Rapporto sul giornalismo in Italia (aggiornamento 2015 a cura di Pino Rea), il cui incipit non lascia dubbi circa la crisi della professione “con la crescita intensa del lavoro autonomo sottopagato, diventato una grande sacca di precariato, come dimostra, tra l’altro, il fatto che il reddito medio dei giornalisti dipendenti è superiore di 5,4 volte a quello della ‘libera professione’ (60mila euro lordi annui contro 11mila) e che otto lavoratori autonomi su dieci (l’82,7%) dichiarano redditi inferiori a 10mila euro all’anno”. In sostanza, dall’inizio del secolo, nella categoria, la quota di lavoro “autonomo” è aumentata di dieci punti. Su 50.674 giornalisti attivi iscritti all’INPGI i lavoratori autonomi “puri” (cioè iscritti soltanto all’INPGI2) alla fine del 2015 erano 33.188 contro 17.486 giornalisti dipendenti (il 34,5%) e poco più di 18mila rapporti di lavoro in costante diminuzione. Che il settore sia in crisi è cosa nota. Come ha rilevato uno studio di Mediobanca, dal 2011 al 2015, i nove maggiori gruppi editoriali italiani hanno perduto il 32,6% del fatturato (le vendite dei quotidiani, già piuttosto ridotte, sono scese di un milione di copie), cumulato perdite nette per due miliardi e ridotto la forza lavoro di oltre 4,5mila unità (ovviamente non si tratta solo di giornalisti per i quali sono in corso da anni misure di prepensionamento a carico della fiscalità generale).
Queste trasformazioni (tra le tante indicate nel rapporto LSDI) hanno inevitabilmente delle conseguenze sul sistema pensionistico. I giornalisti sono una delle categorie in cui è più evidente e marcata quella contraddizione giovani/anziani che tanto li appassiona nei loro articoli (riservati ad altri settori). Mentre i trattamenti pensionistici erogati o da erogare nei prossimi anni hanno radici nelle retribuzioni della “Belle époque” del giornalismo, quelle degli attuali contribuenti si barcamenano all’interno di un mercato del lavoro sempre più destrutturato. Basti pensare che l’importo della pensione media dei giornalisti (di antico conio) è al terzo posto dopo quelli dei notai e dei professori universitari e che l’INPGI ha introdotto il calcolo contributivo (quello che dovrebbe agire retroattivamente per lo stramaledetto vitalizio dei parlamentari) limitatamente ai contributi maturati dal 1° gennaio 2017 in avanti (criterio del pro rata).
Ma il bello viene quando si mette a confronto la composizione delle fasce di reddito dei lavoratori attivi con quella delle pensioni vigenti. Per farla breve, nell’ambito del lavoro dipendente (abbiamo già ricordato il reddito modesto di quello “autonomo”) una quota di poco inferire al 50% dei rapporti di lavoro sta nella fascia fino a 30mila euro lordi annui, mentre quelle più alte continuano a crescere: un giornalista dipendente su quattro nel 2015 ha percepito un reddito superiore a 80mila euro; i redditi superiori a 130mila euro sono passati in 16 anni dal 2,8% al 6,1%. Naturalmente si tratta di professionisti non di primo pelo che hanno fatto meritatamente carriera. Sul versante delle pensioni dirette, l’importo medio è di 57mila euro lordi annui, pari al 94% della retribuzione media del giornalista dipendente. Le pensioni comprese tra 28mila e 49mila euro sono soltanto il 28%. La percentuale più elevata (il 42%) si colloca tra 70mila e 150mila euro.
L’INPGI – ricordiamolo – è una cassa privatizzata che ha autonomia normativa (salvo l’approvazione del Ministero del Lavoro). Quindi sono i giornalisti, attraverso meccanismi di rappresentanza, a definire le regole da applicare. Ma questa non è più o meno la stessa accusa che loro rivolgono ai parlamentari?
Membro del Comitato scientifico ADAPT