Bollettino ADAPT 15 maggio 2023, n. 18
Tra gli eventi che hanno caratterizzato la settimana trascorsa due sono legati da un comune filo rosso che da decenni viene occultato per non svelare i crimini sociali compiuti a favore del sistema pensionistico, il Grande Fratello delle politiche pubbliche. Mi riferisco ai c.d. Stati generali sulla natalità, da un lato, e, dall’altro, alla rivolta del Maidam delle tende canadesi davanti agli Atenei delle più importanti città. La prima iniziativa ha segnato una svolta, sia pure tardiva, per richiamare alla (dis)attenzione dell’opinione pubblica la crisi demografica in cui versa il nostro Paese, stretto nella morsa dell’invecchiamento e della denatalità. L’effetto congiunto di due flagelli ormai sul punto di divenire irreversibili che determinerà enormi problemi non solo sulla sostenibilità dei sistemi di welfare, ma anche – ormai è chiaro – sul mercato del lavoro; nel senso che tra un paio di decenni, verranno a mancare alcuni milioni di persone in età di lavoro. Eppure, ci voleva un governo di destra perché si potesse parlare di natalità, di fecondità e di politiche a sostegno della famiglia.
Non è trascorso molto tempo da quando un ministro della Salute, Beatrice Lorenzin venne accusata di insidiare il diritto all’aborto promuovendo un’iniziativa sulla fertilità della donna (che è strettamente connesso al tema della natalità). Anche questa volta una questione cruciale, assai poco teorica (attinente a concetti astratti come identità, etnia, cultura, comunità, nazione), ma molto pratica (chi lavora, chi paga le tasse, ecc.) finisce in politica: per la destra si torna agli stili di vita tradizionali, ci si sposa, si fanno figli; per la sinistra è sufficiente aprire le frontiere e comunque si ascoltano con un certo fastidio ragionamenti che chiamano in causa la procreazione quando il mantra è quello dei nuovi diritti civili e della sconfitta del patriarcato. Si tratta di prospettive entrambe miopi.
Ammesso e non concesso che si possa invertire una tendenza al declino – che ha assunto il profilo di un valore – l’inverno demografico non lo si recupera se non in tempi lunghi, perché quando le nascite diminuiscono anno dopo anno vuol dire che in quelle coorti vi sono meno uomini e soprattutto meno donne in gradi di procreare; il che si ritorce sulle coorti successive e determina lo sfarinamento della linea della riproduzione sociale. Inoltre, mettiamo pure che le coppie italiane, persuase e preoccupate per la prossima scomparsa della gens italica, si precipitino a “dare figli alla patria” saranno necessari comunque dei decenni perché si ristabilisca uno squilibrio demografico meno accentuato, mai però in numero adeguato a compensare i milioni di persone in età di lavoro che mancheranno nei prossimi vent’anni, mentre – lo ricordiamo per inciso – andranno in quiescenza coloro che sono nati in numero di un milione l’anno (ed erano quasi tutti italiani). Pertanto flussi di immigrazione più consistenti sono indispensabili e costituiscono la risposta più immediata al declino demografico.
Ma l’accoglienza di per sé non può sostituire l’integrazione che è un processo ben più complesso con il quale nessuno è riuscito a misurarsi in maniera adeguata, tenendo conto dei problemi che una immigrazione non governata provoca nelle comunità urbane più disagiate. Intervenendo in occasione degli Stati generali la presidente Giorgia Meloni ha affermato: “Vogliamo vivere in una nazione nella quale essere padri non sia fuori moda, ma un valore socialmente riconosciuto, in cui riscoprano la bellezza di essere genitori che è una cosa bellissima che non ti toglie niente e che ti dà tantissimo”. “Per decenni – ha aggiunto l’ANSA – la cultura dominante ci ha detto il contrario. Vogliamo che non sia più scandaloso dire che siamo tutti nati da un uomo e una donna, che non sia un tabù dire che la natalità non è in vendita, che l’utero non si affitta e i figli non sono prodotti da banco che puoi scegliere e poi magari restituire”. In questi ragionamenti la sinistra intravede ispirazioni conservatrici se non persino reazionarie. Destra e sinistra – al di là delle ideologie – compiono il medesimo errore: quello di dare soverchia importanza agli aspetti economici della denatalità.
Affrontare questo versante in modo adeguato è per la destra un modo per risolvere il problema, mentre per la sinistra l’inadeguatezza della tutela economica della natalità è la principale giustificazione della crisi. E ovviamente viene evocata la precarietà, nel quadro di una condizione giovanile difficile per quando riguarda il lavoro e il vivere in autonomia in casa propria. Questa vicenda si collega all’altra: alla pagliacciata delle tende issate dagli studenti universitari fuori sede che lamentano un’accoglienza troppo onerosa nelle città dove vanno a studiare. Qualcuno potrebbe porsi una domanda. Poiché Il sistema italiano è composto complessivamente da 97 Istituzioni universitarie di cui 67 Università Statali, 19 Università non Statali legalmente riconosciute, non si comprendono le ragioni di queste migrazioni lontano da casa. Ma da quando ci hanno spiegato che è insostenibile un pendolarismo tra Bergamo e Milano, non insistiamo su questo argomento. Restiamo basiti ad ascoltare le proposte che circolano, tra cui una sorta di esproprio degli appartamenti sfitti o altre amenità del genere come il ripristino dell’equo canone che ha espulso dal mercato immobiliare le locazioni.
Ma perché in Italia non si fa da tempo una politica pubblica della casa? Per gli stessi motivi per cui non si è dismessa una politica adeguata a sostegno della famiglia. E qui sta il punto chiave della nostra storia. Al sostegno dei figli e delle famiglie il welfare all’italiana assegna il 4% dell’intera spesa sociale che è la metà di quella media europea. In termini di Pil alla maternità e ai figli è dedicato circa l’1% che è un 1/17° di quanto è destinato alle pensioni. dal 1995 ad oggi vi è stata una vera e propria spoliazione di risorse dalle politiche famigliari a quelle pensionistiche. Negli anni ’60, sia pure in un contesto demografico profondamente diverso dall’attuale, la spesa per assegni familiari era pressoché corrispondente a quella per le pensioni. Gli AF allora erano misura di carattere universale, fino alla riforma del 1988 che introdusse l’assegno al nucleo familiare – l’Anf – il principale, se non addirittura l’unico, strumento a tutela della famiglia, ragguagliato al reddito e al numero dei componenti.
La riforma del sistema pensionistico, attuata dalla Legge Dini-Treu nel 1995, stabilì una riallocazione dei contributi a favore del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (Fpld) la cui aliquota contributiva, dal 1° gennaio 1996, passò di colpo dal 27,5% al 32,7%. Per non aumentare il costo del lavoro, la legge operò, ad oneri invariati, una ristrutturazione della contribuzione sociale: l’aliquota per l’Anf passò dal 6,2 al 2,48%, quella per la maternità dall’1,23 allo 0,66%. E la politica della casa? L’aliquota ex Gescal (un tempo rivolta a finanziare l’edilizia popolare) passò dallo 0,35% a zero. In euro, a prezzi 1996, la diminuzione delle risorse disponibili fu di 4,6 miliardi di lire per l’Anf, di 0,6 miliardi per la maternità, di 1,4 miliardi per asili ed edilizia sociale, per un totale di 6,6 miliardi. A prezzi 2008, le risorse disponibili, trasferite alla voce pensioni, corrisposero a 8,5 miliardi l’anno. Più chiaramente – come documentò la Cei in un saggio Il cambiamento demografico pubblicato da Laterza – dal 1996 al 2010 la riallocazione di risorse destinate alla famiglia, in senso lato, ha finanziato il sistema pensionistico per un ammontare che, a prezzi 2008, mobilitò e trasferì un volume finanziario pari a circa 120 miliardi di euro. Ma non basta; perché all’interno della Gestione prestazioni temporanee dell’Inps (che eroga le prestazioni previdenziali “minori” in quanto non pensionistiche), la voce “assegno al nucleo familiare” – nonostante la riduzione dell’aliquota – continuò ad incassare dai datori di lavoro circa un miliardo in più di quanto spendeva: l’avanzo veniva riversato, nella logica del bilancio unitario dell’Inps, nel calderone delle gestioni pensionistiche e delle altre prestazioni. È questo, tuttavia, solo il punto terminale di una politica che ha consapevolmente sacrificato il sostegno alla famiglia per finanziare il sistema pensionistico.
Che altro dire di un modello sociale tanto distorto, dove i nonni e i padri hanno rubato e rubano ai figli e ai nipoti, con il consenso di quel sindacato che si ostina a difendere un sistema pensionistico in cui nei prossimi anni crescerà in numero dei trattamenti mentre crollerà quello dei contribuenti? Eppure, anche oggi, che sono venuti in evidenza gli effetti congiunti della denatalità e dell’invecchiamento, i grandi soggetti sociali non sembrano in grado di fare ammenda delle politiche del passato. Compresa la requisizione dell’ex Gescal ai danni dell’edilizia popolare, salvo recarsi, come ha fatto Maurizio Landini a Milano, a solidarizzare con gli studenti attendati riconoscendo le loro ragioni ma tacendo sui propri torti.
Membro del Comitato scientifico ADAPT