Bollettino ADAPT 9 maggio 2022, n. 18
Che guaio il mismatch tra domanda e offerta di lavoro! Purtroppo, da noi, è una storia vecchia, ormai divenuta cronica. Già, nel 2001, il Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia segnalava il problema. Dalla lettura del brano seguente è di immediata comprensione che la situazione, più di venti anni dopo, nonostante le riforme (con qualche controriforma) nel frattempo intervenute, non è sostanzialmente mutata.
“L’efficace funzionamento del mercato del lavoro – era scritto nel Libro Bianco la cui stesura fu coordinata da Marco Biagi – risulta ostacolato da un inefficiente incontro tra domanda e offerta. Tale inefficienza è chiaramente evidenziata anche dal forte divario territoriale che caratterizza il mercato del lavoro in Italia. Le difficoltà, che continuano ad incontrare le aree settentrionali del Paese nel reclutamento di manodopera (qualificata e non), sono segnalate quotidianamente dai più diversi indicatori qualitativi e quantitativi. Peraltro, esse possono anche originare pericolose tensioni salariali e favorire il diffondersi di fenomeni devianti quali il sommerso e l’immigrazione clandestina. Nonostante alcuni forti segnali di ripresa della mobilità territoriale – proseguiva – ancora limitati appaiono i movimenti di coloro che sono in cerca di lavoro, ostacolati da una struttura eccessivamente rigida delle retribuzioni e da elevati costi indiretti (abitazione, trasporti)’’.
Quanto alle misure da adottare per superare l’handicap del mismatch, il Libro bianco ne anticipava alcune che oggi sono generalmente condivise (anche se sono lontane dall’essere realizzate), ma che allora erano ritenute una inaccettabile rinuncia alla sacralità del sistema pubblico di collocamento, nonostante la sua comprovata inefficienza. “Anzitutto va osservato che la diffusione delle informazioni deve avvenire in un vero e proprio mercato, con una domanda e un’offerta che si confrontano e che determinano un prezzo di scambio. Questo mercato però è del tutto particolare e richiede una certa dose di regolazione e di presenza pubblica. Si pone la necessità di avere regole di accreditamento delle strutture autorizzate a svolgere questa attività, ma le regole non devono essere tali da precludere che anche in questo particolare mercato valgano i principi generali della concorrenza. Questo è quanto insegna (ecco il contributo del benchmarking, tanto importante per Biagi, ndr) anche l’esperienza degli altri paesi più sviluppati”.
Un’altra testimonianza del fatto che le cose non sono cambiate sta in una considerazione di allora, che potrebbe essere stata scritta oggi: “Non è un caso che la stessa Unione Europea sia convinta che questo (il mismatch, ndr) rappresenta uno dei principali problemi della nostra situazione occupazionale e ci stimoli a condurre una azione di sostegno nei confronti delle amministrazioni delle Regioni in cui le carenze sono più gravi”.
Da tempo, ormai, le rilevazioni periodiche di Excelsior-Unioncamere rappresentano una realtà del rapporto tra domanda e offerta nel mercato del lavoro che sembra paradossale in un Paese in cui (secondo le statistiche dell’Istat di marzo) la disoccupazione è pari all’8,3% (un dato ritenuto tra i migliori degli ultimi anni e destinato, per tanti motivi, a peggiorare). Certo, il programma si basa sulle risposte a un questionario distribuito ad un campione di aziende. Ma – pur con tutti i limiti – i risultati di una ricerca con queste caratteristiche sono più credibili dell’affidarsi al sentito dire o alla percezione oppure ad un certo andazzo della politica dei sindacati ispirata al discutibile criterio in base al quale a dare una versione negativa della realtà non si sbaglia mai.
Il Bollettino del Sistema informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere e Anpal, (che elabora le previsioni occupazionali di maggio 2022) prefigura assunzioni per oltre 400mila posti (per la precisione 444mila), “nonostante le difficoltà nel reperire determinate figure” e l’indebolimento della crescita economica osservato nel primo trimestre e le prospettive sempre più incerte per il secondo trimestre a causa della guerra in Ucraina ed alla conseguente crisi energetica e delle altre materie prime.
Per le assunzioni di maggio il Bollettino mette anche in evidenza quali sono le tipologie di rapporti maggiormente richieste. Nel dettaglio:
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i contratti a tempo determinato con 246mila unità, pari al 55,5%;
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i contratti a tempo indeterminato (76mila);
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i contratti di somministrazione (49mila);
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i contratti non alle dipendenze (28mila);
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i contratti di apprendistato (23mila);
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altre forme contrattuali alle dipendenze (15mila);
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i contratti di collaborazione (6mila).
L’industria che nel suo complesso è alla ricerca di 99mila profili professionali di cui:
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66mila da impiegare nel manifatturiero;
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33mila nelle costruzioni.
Numerose sono anche le possibilità di lavoro nel settore dei servizi, con 345mila ingressi programmati. Nel dettaglio:
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servizi di alloggio, ristorazione e dei servizi turistici a esprimere la domanda prevedono 105mila entrate programmate;
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servizi alle persone (67mila);
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servizi operativi di supporto alle imprese e alle persone (56mila).
Assunzioni sono previste anche nei seguenti settori:
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commercio per circa 52mila posti;
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informatica e telecomunicazioni per circa 15mila posti.
“Si conferma elevato, tuttavia, il mismatch tra domanda e offerta di lavoro: sono difficili da reperire il 38,3% dei lavoratori ricercati, difficoltà – è scritto nel Bollettino – riconducibile prevalentemente alla mancanza di candidati”. Qui sta la principale novità. Eravamo abituati a ragionare della difficoltà di reperire sul mercato personale dotato delle competenze richieste per i posti di lavoro da coprire. E a questo proposito si risaliva alla scolarizzazione, al tipo di formazione professionale e così via. Oggi – e da tempo – il problema è più diretto: le imprese non sono in difficoltà soltanto per soddisfare la domanda e trovare il personale di cui hanno effettiva necessità. Manca proprio l’offerta di lavoro, in senso assoluto. Senza dare valore generale alle “grida di dolore” delle imprese – specie in taluni settori – che denunciano di essere impossibilitate a svolgere la loro attività proprio perché non trovano personale disponibile, la questione viene confermata dalle statistiche dell’Istat sui posti vacanti, la cui incidenza è cresciuta rapidamente a partire dagli ultimi mesi del 2020, superando già nel corso del primo semestre del 2021 i livelli del 2019.
Problemi di questo tipo sono emersi nel corso del 2021, sia nei settori della manifattura – nei quali tale quota è salita dall’1,4 al 6,1% – sia in quella dei servizi di mercato, dove l’incidenza di tali segnalazioni è passata dal 3,2 al 12,8%. In presenza di questo fenomeno – che è più grave e meno comprensibile – in un Paese ad elevata disoccupazione, è sconcertante la risposta dei sindacati: “le retribuzioni sono troppo basse, se volete i lavoratori pagateli di più”. Come se i contratti di lavoro fossero regolamenti che le imprese emanano da sole. C’è però una domanda. che ossessiona chi scrive, senza trovare una risposta convincente. D’accordo: mettiamo pure che le retribuzioni siano inadeguate; ma davvero lo sono a tal punto che non è conveniente lavorare? E se non si percepisce neppure una retribuzione ritenuta insufficiente, come si campa? Alcuni dicono che è meglio andare all’estero a fare gli stessi lavori che farebbero qui, perché si guadagna di più (anche in rapporto al costo della vita?) poi si imparano le lingue e si gira il mondo. Molto bene. Ma quanti sono coloro che, grazie alla famiglia, sono in grado di condurre il medesimo regime di vita senza “abbassarsi” a lavorare con una retribuzione inadeguata? Intendiamoci: nessuno sostiene che qualunque condizione di sfruttamento e di violazione dei diritti dei lavoratori rappresenti una sorta di “meno peggio”, da accettare comunque. Si trovi ogni possibile provvedimento rivolto a garantire il rispetto delle regole e la tutela dei lavoratori. Ma in tale contesto ogni lavoro è da considerare decente. Poi sappiamo che non esiste il lavoro obbligatorio; ma non possiamo neppure accettare che, a livello della comunicazione, l’impegno in un’attività lavorativa divenga un disvalore. Del resto che cosa possiamo aspettarci quando il principale obiettivo dei sindacati a favore dei giovani è quello di garantire loro una pensione; non già una copertura contrattuale se non la hanno già o un salario minimo legale se ne sono sprovvisti o ancora un percorso di politiche attive che li conducano ad un’occupazione stabile e di qualità in un contesto di formazione permanente?
Membro del Comitato scientifico ADAPT