Bollettino ADAPT 3 ottobre 2022, n. 33
“Il riformismo è un po’ come il coraggio di Don Abbondio. Chi non ce l’ha raramente riesce a darselo. E così il Paese è rimasto bloccato per vent’anni in quelle innovazioni che il prof. Biagi ha studiato, indicato e caldeggiato per tutta la vita, insieme ad altri coraggiosi giuslavoristi ed economisti come Massimo D’Antona e Ezio Tarantelli”. Il brano è tratto dall’intervento del segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra, a conclusione del seminario organizzato dalla Cisl d’intesa con il Centro Studi di Firenze e la Fondazione Tarantelli in occasione della ricorrenza ventennale dell’assassinio di Marco Biagi. Gli atti – insieme ad una ricca documentazione tra cui una selezione di articoli di Marco, la sua biografia, la carriera universitaria, le sue opere e pubblicazioni – sono raccolti in un volumetto edito da Edizioni Lavoro curato da Marco Lai e Francesco Lauria dal titolo “Marco Biagi: la forza dell’innovazione”.
Non sono partito da una citazione di Sbarra allo scopo di rispettare una sorta di gerarchia. Mi hanno colpito alcune parole pronunciate dal leader sindacale in occasione del seminario: “il Paese è rimasto bloccato per vent’anni in quelle innovazioni”. Sono le stesse con le quali l’allora premier Matteo Renzi commentò l’approvazione definitiva del Jobs act nel 2014, sottolineando che il suo governo aveva assunto provvedimenti in materia di lavoro che sarebbero dovuti entrare in vigore venti anni prima. Non credo che Sbarra abbia cambiato opinione a qualche mese di distanza. È importante allora che un sindacalista alla guida di una grande organizzazione non consideri la “modernizzazione” del diritto del lavoro alla stregua di un cedimento alle istanze liberiste o addirittura il venir meno da parte della sinistra al mandato storico della difesa dei diritti dei lavoratori.
Durante la campagna elettorale opinioni siffatte non sono rimaste tra le righe, avvertibili solo da chi avesse orecchi attenti e occhi abituati ad origliare; ma sono divenute argomento di propaganda, nel senso che si è arrivati a pentirsi di talune innovazioni legislative allo scopo di recuperare un consenso perduto. Maurizio Landini continua a rammendare le solite vecchie calze. In più il leader della Cgil ha addirittura giustificato – tutti hanno interpretato così la sua mossa – una singolare neutralità sulla natura politica del nuovo governo con questi argomenti: “negli ultimi anni – ha detto il segretario a Bologna a conclusione dell’Assemblea dei delegati della Cgil – il mondo del lavoro, le lavoratrici e i lavoratori, i precari, i giovani non sono stati ascoltati. E addirittura le politiche fatte, in molti casi sia da governi di destra sia da governi che si richiamavano alla sinistra, hanno peggiorato la condizione di vita e di lavoro delle persone”. Ma almeno Landini appartiene ad una cultura massimalista che non è mai stata completamente – anzi – superata da tanti sindacati nel mondo.
Il problema è più serio quando è un ministro del Lavoro, sia pure in carica per l’ordinaria amministrazione, Andrea Orlando, a delegittimare sul piano politico, una lunga stagione di riforme: “Il Jobs act non è stato solo l’abolizione dell’articolo 18, è stata l’ultima grande scommessa liberista sul mercato del lavoro di una serie che inizia negli anni Novanta, e a cui la sinistra ha partecipato. La scommessa era già persa pochi anni dopo l’approvazione, tant’è che al congresso del 2017 in cui mi candidai segretario si poneva già il suo ripensamento. Ripristinare l’articolo 18 così come era sarebbe forse anacronistico, ma è comunque necessario intervenire perché diverse sentenze della Consulta hanno messo in luce le gravi incongruenze del Jobs act”. Parole in sintonia con Enrico Letta che a Cernobbio, con un sospiro di sollievo, ha annunciato: “Il programma del Pd supera finalmente il Jobs Act’’.
È molto significativo allora che degli esponenti dei centri studi di un grande sindacato (si veda lo scritto di Giuseppe Gallo e Francesco Scrima) confermino che “la Cisl è riformatrice per codice genetico, originario e identitario, sia in riferimento al ruolo contrattuale, sia in materia di relazioni industriali partecipative, sia infine, per quanto riguarda il complessivo governo di un mercato del lavoro inclusivo e giusto’’. E aggiungano: “Questa è per noi una linea di demarcazione che identifica la nostra soggettività autonoma, costante e nitida anche oggi nella capacità e nel coraggio di distinguersi dai massimalismi e dagli opportunismi e dai loro retaggi e ambiguità ideologiche irrisolte sia nei rapporti con il governo e con le controparti”.
Ma che cosa è l’innovazione? Risponde a questa domanda Marco Lai dopo una lunga disamina del pensiero di Marco Biagi: “La consapevolezza cioè che non si può ricorrere a schemi del passato per interpretare e disciplinare fenomeni nuovi”. L’amico Tiziano Treu ha voluto sottolineare “la dimensione continentale dell’impegno di Marco che è stato il primo giurista effettivamente europeo’’. Secondo il presidente del Cnel “abbiamo la necessità di riorientare tutte le nostre politiche economiche e sociali in un’ottica europea”. Tanto che Treu si dice “colpito dal fatto che Mario Draghi ogni volta che affronta temi economici e sociali ripete sempre e più volte: “tutte le questioni di cui stiamo parlando devono avere una dimensione europea, come minimo”.
Michele Tiraboschi riporta il dibattito ai rapporti di Marco con i sindacati. “Più di tutto (e più di tutti quelli della sua generazione) Marco Biagi si è battuto per una nuova cultura sindacale, o meglio per la costruzione di una cultura sindacale, mettendo al centro del suo impegno il significato più profondo e il ruolo dell’essere sindacato e sindacalisti oggi”. E seguendo l’insegnamento del Maestro di portare le regole laddove non ci sono, Tiraboschi sottolinea che “oggi il lavoro che sta emergendo è un lavoro di cura: abbiamo due milioni e mezzo di persone che stanno in questo non-mercato, privi di regole, prevalentemente sommerse. Persone, lavoratori che non vengono riconosciute in quanto tali – aggiunge Tiraboschi – perché non è un lavoro per l’impresa, per la fabbrica. Non è un lavoro produttivo’’.
Dopo il riconoscimento di Maurizio Stirpe, vice presidente di Confindustria, Marco Biagi ha posto delle pietre miliari importanti nel mondo del lavoro e sul modo di intendere o di saper interpretare, con innovazione, il futuro, merita un’attenzione particolare l’intervento di Francesco Lauria “Il senso e il potere delle parole”. Lauria prende le mosse dalla sua partecipazione ad una cerimonia per l’intitolazione a Biagi di una via dove è ubicata la Fondazione di Modena. E ricorda – presente Marina Biagi – la provocazione di un gruppo di ragazzi in bicicletta che – come se dovessero compiere una prova di affiliazione – canticchiava: “Marco Biagi traditore dello Stato, ha inventato il precariato”. La sua è una ricostruzione compiuta ed accurata del rapporto tra Biagi e la Cisl, non solo a livello culturale/didattico, ma anche operativo a partire da quel Patto per Milano del 1999 da cui scaturì contro il professore la fatwa irrevocabile della Cgil. Ma definire Marco “il padre del precariato” è non solo un’infamia e una distorsione della realtà (come testimonia in una intervista Marina) ma è una stupidaggine, perché non ha senso personalizzare l’avvio di un processo di trasformazione del lavoro che percorre tutto il mondo. Solo un imbecille (sono valutazioni mie) può pensare che un giurista, armato solo della sua bicicletta, si ritiri dopo cena nel suo studio a inventare (come se fosse un George Soros povero) il mondo per depredare i lavoratori dei loro diritti. Eppure è questa convinzione che ha armato i suoi assassini.
Lauria ricorda quando, pochi mesi dopo la pubblicazione del Libro bianco, Biagi incontrò, per un confronto, i dirigenti della Cisl. Abituato a ricevere critiche, anche da parte dei suoi colleghi, Marco “prese l’uditorio di petto” invitando quei sindacalisti ad assumersi delle responsabilità; a non “rifiutare l’ostacolo come fa il cavallo quando ha paura”. E aggiunse “la mia linea e quella della modernizzazione che deriva dall’Europa”. Ma che cosa significava per Biagi la modernizzazione? Lauria cita la definizione del professore: “Si traduce con flessibilità sostenibile e tutelata, usando un’altra parola, con adattabilità”.
A leggere queste pagine riferite ad un evento svoltosi nella primavera scorsa, viene da pensare a quanto è cambiata in pochi mesi la storia del mondo e dell’Italia. Soprattutto oggi il mondo del lavoro non è più solo un fenomeno economico e sociale, ma è diventato un problema politico.
Membro del Comitato scientifico ADAPT