Politically (in)correct – Marco Biagi, Federico Mancini e la Johns Hopkins University

Bollettino ADAPT 15 marzo 2021, n. 10

 

In prossimità del XIX anniversario dell’assassinio di Marco Biagi ho iniziato a rileggere il volume dei suoi “Scritti Scelti – Marco Biagi- Un giurista progettuale” edito da Giuffrè nel 2003, a cura di Luigi Montuschi (il Maestro), Tiziano Treu (l’amico) e Michele Tiraboschi (l’allievo e testimone). Come scrivono i curatori nella Presentazione gli scritti pubblicati nella raccolta “rappresentano bene la produzione scientifica e progettuale di Marco Biagi. Si concentrano sui lavori più recenti, quelli in cui Marco ha tratto i frutti delle riflessioni accumulate nel periodo formativo della sua vita accademica nell’ambito della scuola bolognese di Federico Mancini”. Con una premessa siffatta l’attenzione – anche per fatti personali – si è concentrata subito sulla commemorazione (a Marco non piaceva questa parola; preferì definire il suo discorso “un’occasione per riflettere”) di Federico Mancini alla Johns Hopkins University di Bologna. In quel centro di studi e cultura – dove solo la metà degli studenti, ricorda Biagi, erano americani mentre gli altri provenivano dalla più disparate parti del mondo – dopo più di mezzo secolo è entrato a far parte della vita quotidiana della città e che è divenuto uno dei tanti “pezzi pregiati” bolognesi, Marco (ottimo conoscitore dell’inglese) era subentrato nella cattedra che Mancini aveva tenuto per vent’anni prima di assumere altri incarichi di rilievo istituzionale.

 

Il discorso di Biagi fu pubblicato dal Bollettino dell’Università nel corso del 2001 (Mancini era morto nel 1999); la commemorazione si era svolta quindi in occasione di un anniversario e si è trattato certamente di uno degli ultimi interventi di Marco, certo uno dei più impegnati e sentiti. Nel saggio è vivo non solo il ricordo, ma si avverte un affetto profondo per il Maestro e la gratitudine per un insegnamento che ha arricchito l’intera vita dell’Allievo, poi divenuto amico in grado di condividere le proprie esperienze con quelle di Mancini. C’è un passaggio nel testo che è molto significativo, quando Biagi si domanda se Mancini “precursore delle attuali tendenze giuslavoristiche” si fosse trovato a disagio in un’epoca di new economy. In questo interrogativo si scorge il travaglio umano prima ancora che scientifico di un giurista di frontiera come Marco, proteso a “regolare” quei rapporti che scaturivano dalle trasformazioni del mercato del lavoro e che erano considerate “illegittime” o “spurie” dalla dottrina tradizionale e dai sindacati. Biagi era criticato per questi suoi interessi e sentiva il bisogno di parlarne con il Maestro che – diversamente da lui – aveva dedicato (si pensi ai lavori sul recesso) un grande impegno nell’approfondire, sul piano teorico, gli aspetti cruciali del rapporto di lavoro quali i termini della sua risoluzione, trovandosi poi spiazzato da quelle “tre parole” del legislatore che mandano al macero intere biblioteche (la legge n.604/1966 e soprattutto l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Così Marco racconta: “Ne parlammo poco tempo prima della sua scomparsa in occasione dell’ultima telefonata che ebbi con lui. Gli raccontavo – prosegue –di quanto stessi facendo a Bruxelles dove mi interessavo del capitolo sull’occupazione del Trattato di Amsterdam”. Ecco che cosa intendeva comunicare l’Allievo nella sua piena maturità al Maestro, forse per spiegarsi e fornire la sua versione dei fatti, diversa da quella dei suoi colleghi della Scuola, con alcuni dei quali si sarebbe trovato di lì a poco al centro di una dura polemica: “Dicevo a Federico che insistere in una logica di standardizzazione esasperata delle tutele può rendere il fenomeno della delocalizzazione ingovernabile, con tanti saluti al nostro diritto del lavoro. Gli esponevo la tecnica del “coordinamento aperto” che in fondo era una moderna applicazione del benchmarking assunto come momento vincolante e non solo di confronto”.

 

Chi come il sottoscritto ha compiuto un’esperienza di coordinamento aperto su altre materie rispetto a quelle di cui si occupava Biagi, potrebbe trovare eccessivamente ottimistiche le valutazioni di Marco. Ma per Marco avere un punto di osservazione sulle “buone pratiche” degli altri Paesi costituiva un contributo fondamentale per modernizzare un diritto del lavoro ostinatamente difeso per pigrizia ideologica: “Sentii Federico – ricorda Marco – sinceramente incuriosito, palpitante con il cuore del tifoso del Bologna (una passione condivisa dallo stesso Biagi) per una nuova frontiera della nostra materia che non si trovava a vivere da protagonista. Ci demmo appuntamento per una chiacchierata troppo a lungo rinviata. Il destino mi ha impedito di raccogliere il suo consiglio anche in quella occasione”. Quando presentava al Maestro questo rendiconto di una vita di studio e di impegno civile, Marco non presagiva che poco anni dopo la morte lo avrebbe atteso di sera tarda davanti a casa. Eppure il conto alla rovescia era già scattato dal 2 febbraio del 2000 quando era stata siglata l’intesa definitiva di “Milano Lavoro”, un Patto promosso dal Comune di Milano con obiettivi di inclusione, attraverso occasioni di impiego, di persone ai margini non solo del mercato del lavoro, ma della società. Il contributo di Marco Biagi era stato fondamentale; ma quell’iniziativa che guardava lontano e che sarebbe divenuta un’esperienza da imitare in tante altre circostanze, attirò sul nostro amico la “maledizione di Montezuma” che l’avrebbe strappato di lì a poco ai suoi cari, agli amici, agli studenti, al Paese. Anche nel suo caso non è stato possibile prendere appuntamento per quella chiacchierata che non siamo più riusciti a fare. Ma ad impedircelo non è stato il destino.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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