Bollettino ADAPT 2 maggio 2022, n. 17
Il 1° Maggio di 40 anni or sono è stato uno dei giorni più importanti della mia vita. Mi trovavo a Santiago del Cile, all’inizio di una missione di cui mi aveva incaricato la segreteria nazionale della Cgil in America Latina, che mi portò prima in Cile, poi in Uruguay, in Argentina e infine in Brasile. In occasione della Festa del Lavoro intervenni, portando il saluto della mia organizzazione, alla manifestazione della Coordinadora Sindical, l’organizzazione in cui confluivano i movimenti di posizione contro il regime di Pinochet. Benché non fosse immune dalla repressione la Coordinadora, in quanto sindacato, era riuscita a conquistarsi un minimo di agibilità politica (era riconosciuta dagli organismi internazionali come l’OIL) ed era divenuta un punto di riferimento – se vogliamo di copertura – anche per i partiti democratici, messi fuori legge dopo il golpe militare del 1973.
La presenza di un sindacalista straniero (l’Italia aveva svolto un ruolo importante nell’accoglienza di esuli cileni) forniva un minimo di sicurezza per lo svolgimento di una manifestazione proibita, perché il regime non aveva interesse a far parlare di sé a livello internazionale. In sostanza, io non correvo nessun rischio di una certa consistenza. Al massimo, poteva capitarmi (come altri prima e dopo di me) di essere fermato dalla polizia per qualche ora (fino all’arrivo dell’ambasciatore con cui mi ero messo in contatto nei giorni precedenti), per essere poi espulso dal Paese e guadagnarmi un po’ di nomea a livello internazionale, alla stregua di un perseguitato dal regime. Eppure, quella volta, ebbi la sensazione di aver fatto il mio dovere e di aver svolto un discorso il più sentito e sincero di quelli declamati in centinaia di comizi di cui è cosparsa la mia carriera sindacale e politica.
Perché ho voluto ricordare questa vicenda ormai tanto lontana nel tempo, ma presente nella mia memoria? Se fossi ancora un dirigente sindacale – mi sono detto – avrei cercato di trascorrere il 1° Maggio di quest’anno a Kiev. Ovviamente, sono consapevole che – ammesso e non concesso che il viaggio fosse stato possibile – avrei corso dei rischi molto più seri di quelli “teorici” di Santiago. Ma il mio “posto” sarebbe stato lì e non ad Assisi a piagnucolare per una pace che, in realtà, potrebbe soltanto divenire una resa dell’Ucraina all’aggressore russo. Ma non vado oltre; mi sarei augurato solo – ma non è stato così – che il Concerto del 1° Maggio non diventasse l’occasione di un solito “né” “né”, che poi finisce per pesare di più da una parte sola. Sulla ricorrenza del 1° Maggio ho letto il testo pubblicato ieri da Adapt. Mi ha colpito, in particolare, il brano dove viene scritto: “Siamo consapevoli di essere sempre in meno a sostenere la centralità delle relazioni industriali come metodo di governo e innovazione delle trasformazioni economiche e sociali, e d’altronde alle difficili condizioni in cui versa l’economia nel nostro Paese non sta corrispondendo una convergenza tra le parti sociali altrettanto straordinaria e capace di costruire la tanto auspicata “prospettiva economica condivisa”. Tuttavia – prosegue il testo – continuiamo a ritenere che non si possa fare a meno del dialogo e del confronto interno all’autonomia collettiva, salvo non immaginare una società atomizzata e disintermediata nella quale solo chi ha mezzi e conoscenze riesce ad affrancarsi da condizioni di mercato che rischiano di soffocare le persone’’.
È vero, ci sarebbero tanti argomenti da affrontare col metodo del dialogo sociale. Senza scomodare le gravi emergenze che sono dietro l’angolo, né i compiti immani richiesti per portare avanti il PNRR, nella nuova situazione venuta a determinarsi, ancor prima dell’inizio della guerra nel cuore dell’Europa; ma anche ad accontentarsi solamente di governare le relazioni industriali per quanto riguarda la tutela del salario dall’inflazione e un mercato del lavoro nel quale non si capisce più se a mancare siano i posti o i lavoratori, sarebbe necessaria una effettiva collaborazione tra il governo e le parti sociali. Che cosa potrebbe fare, per esempio, l’esecutivo, sul piano fiscale, per evitare una rincorsa suicida tra salari e prezzi, a maggior gloria dell’inflazione? Come si potrebbe evitare, inoltre, che l’indice IPCA venga sconfessato proprio nel momento in cui dovrebbe essere operativo al fine di scorporare l’inflazione importata? Quali misure possono consentire di non lasciare vuoto nessun posto di lavoro?
A livello nazionale il dialogo non decolla: volano parole grosse tra i sindacati e la Confindustria, tra essa e il ministro Andrea Orlando, che forse non è stato capito, quando gli sono state attribuite affermazioni molto discutibili soprattutto in mancanza di una crescita effettiva, adeguata e sostenibile. Come se la circolazione della moneta bastasse a risolvere i problemi; e il potere d’acquisto non venisse taglieggiato dall’inflazione. Infatti, il titolare del Lavoro, intervenendo al Congresso di Articolo 1, ha sostenuto che vi è un interesse generale nell’incremento delle retribuzioni allo scopo di sostenere il mercato interno, garantito, per giunta, da ristori alle imprese a condizione che rinnovino i contratti e aumentino le retribuzioni dei loro dipendenti. Insomma, tutti contro tutti. Eppure, il 29 aprile dopo due giorni di intenso dibattito, è stato sottoscritto a Milano dalle più importanti associazioni imprenditoriale e dalle confederazioni dell’area metropolitana, insieme all’amministrazione comunale, un Patto per il lavoro. Milano non è (absit iniuria verbis) Voghera, ma la più importante città europea dell’Italia. I gruppi dirigenti sindacali non sono dei giovanotti alle prime armi. E l’Assolombarda e compagnia non costituiscono delle realtà periferiche del mondo dell’impresa.
Ricordo che all’epoca d’oro dei metalmeccanici, il segretario della Fiom di Milano, Annio Breschi, era solito polemizzare – tronfio per i suoi 100mila iscritti – con i dirigenti della Fiom di Torino – difesi soltanto dal loro rigore ideologico – con questa simpatica battuta: “Noi milanesi non siamo come i compagni di Torino che hanno avuto Gramsci; noi dobbiamo accontentarci di Turati”. E’ ancora così? A Milano non sono sensibili come a Roma allo “sfruttamento”, non demonizzano il profitto e non si accorgono che il mercato del lavoro è una landa desolata in balia della precarietà? Che i salari sono tanto bassi che fanno venir meno la voglia di lavorare?
Membro del Comitato scientifico ADAPT