Bollettino ADAPT 8 febbraio 2021, n. 5
Dopo una lunga fase di negoziato è stato raggiunto un accordo di rinnovo contrattuale dei metalmeccanici. È stato un cammino faticoso, partito da posizioni diverse tra le parti e condotto nella terra di nessuno di una pandemia che si era eretta come “vincolo esterno” arbitrario e imprevedibile, tale da oscurare qualsiasi previsione per il futuro. Nessuno si era mai trovato, dal lato sindacale, ad esprimere un potere contrattuale all’interno di fabbriche chiuse per legge; e nessun imprenditore era in grado di retribuire una produzione che non veniva svolta e la cui ripresa era condizionata dal capriccio di un virus sconosciuto. Nel contesto di circostanze eccezionali, il rinnovo era contraddistinto da un mutamento della strategia contrattuale dei sindacali, sostanzialmente alternativa – per esplicita ammissione – a quella che aveva ispirato il rinnovo precedente. Era tornata a porsi una questione salariale di carattere nazionale che comportava una valorizzazione della contrattazione collettiva a quel livello e che finiva per confinare nel novero delle speranze deluse quella contrattazione di prossimità che era al centro dell’impostazione del precedente rinnovo del novembre 2016. La piattaforma presentata da Fim-Fiom-Uilm non era per nulla reticente rispetto agli obiettivi da raggiungere: “Riconfermiamo – stava scritto – il modello scaturito dal Ccnl del 26 novembre 2016 che ha prodotto la riconferma dei due livelli di contrattazione e numerose innovazioni contrattuali per i lavoratori, ma l’esigibilità di questo modello, introdotto in via sperimentale, ha avuto un’efficacia molto al di sotto delle aspettative nella diffusione della contrattazione decentrata e con essa la capacità di distribuire profitti e produttività”. Questa svolta della controparte ha portato anche la Federmeccamica a cercare e a trovare una mediazione (come peraltro avevano fatto altre categorie meno coinvolte dalla crisi), nonostante che la Confindustria insistesse perché le associazioni di categoria si attenessero agli indirizzi del c.d. Patto della fabbrica del 2018.
SCHEDA
112 euro come aumento medio per un quinto livello, 100 per il terzo.
Il contratto avrà vigenza a partire da gennaio 2021, fino al giugno 2024.
Con trance erogate nella seguente modalità: 2021 25 euro, giugno 2022 25 euro, giugno 2023 27 euro, giugno 2024 35 euro.
Ai 112 euro di aumento si sommano i 12 euro di Ipca sui minimi da giugno 2020 per effetto dell’ultrattività dovuta alla struttura del Ccnl precedente.
Confermati inoltre 200 euro l’anno di flexible benefit; l’innalzamento per il Cometa (il Fondo di previdenza integrativa) al 2,2% dal 2022 per under 35.
Una riforma dell’inquadramento professionale fermo al lontano 1973, con l’obiettivo di rimettere ordine e attualizzare il sistema di classificazione, modernizzando e aggiornando i sistemi di valutazione della professionalità dei lavoratori.
I contenuti del rinnovo sono riassunti nella scheda e segnalano, in particolare, una promessa (non sappiamo ancora se sia una novità): la riforma della classificazione professionale tuttora ferma allo schema dell’inquadramento unico stabilito nel 1973 e sopravvissuto a lungo alla fine di quella organizzazione tayloristica del lavoro allora operante negli opifici. Il proposito di mettere mano alla gerarchia delle qualifiche (dove risiede il principale scambio del rapporto di lavoro) si era ormai trasformato in un impegno ribadito in occasione di ogni rinnovo (con l’istituzione delle solite commissioni paritetiche), ma sempre disatteso, non per cattiva volontà, ma per la mancanza di un “pensiero” adeguato, che prendesse l’avvio, prima di tutto, dall’interpretazione delle nuove tecnologie e dei loro effetti sulla organizzazione del lavoro e sulle professionalità occorrenti. In ogni caso, il 2020 è un anno che ha segnato un confine tra il “prima” e il “dopo”; tra il primum vivere e il deinde philosophari. Mai come questa volta non ci sarebbe stato il secondo tempo, in mancanza del primo. Ma come la mettiamo col virus insidioso del panico indotto? Ecco perché è importante il rinnovo del contratto della più grande e significativa categoria dell’industria, per diversi motivi.
Innanzi tutto, perché si consolida un metodo di unità d’azione che era stato recuperato, dopo anni, nel 2016. Ma il vero segnale che proviene da questo rinnovo (come da altri dei settori privati) riguarda la prospettiva del Paese. Il fatto che sia bastato il ripristino della normalità produttiva nel secondo trimestre dell’annus horribilis appena trascorso, per consentire lo svolgersi di una dialettica fisiologica nei posti di lavoro e di mettere d’accordo le parti a livello nazionale, sia pure con qualche accorgimento nella gradualità degli oneri economici e nella durata del contratto, significa che l’apparato produttivo sarebbe in grado di farcela da sé, se gli fosse consentito di lavorare. Viene da qui una convinzione radicata in chi scrive: le misure di mitigazione del contagio non possono continuare ad essere una “variabile indipendente” della vita civile, economica e sociale del Paese a cui tutte le altre attività siano costrette ad adattarsi. Si fa un gran parlare dei 101mila posti di lavoro persi a dicembre (e che 99mila siano donne) che se fosse piovuto una maledizione dal cielo, quando questa disoccupazione aggiuntiva (che ha invertito la tendenza al recupero di occupati nei mesi precedenti) è in larghissima misura, un effetto collaterale delle restrizioni assunte all’inizio di dicembre. È ora di porsi tutti quanti la domanda contenuta nell’articolo di Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi su Il Foglio: “Fino a quando può resistere una società imprigionata dal virus?”. Si sono sprecati miliardi nei c.d. ristori a titolari di imprese (con annessi proroghe del blocco dei licenziamenti e cig da Covid-19) che chiedevano soltanto di poter lavorare (si è visto con la riapertura dei ristoranti nel fine settimana), nella consapevolezza che un’azienda, per sopravvivere, deve produrre da sola il fatturato necessario, senza dover attendere quello sostitutivo da parte dello Stato.
Ma la considerazione che non ammette repliche è un’altra che abbiamo scoperto dopo aver creduto di sconfiggere il coronavirus stando rinchiusi nel tinello di casa: il virus evolve. A questa se ne può aggiungere un’altra: la vaccinazione non è la terra promessa, ma un’operazione complessa – benché sia miracoloso il tempo impiegato per disporne – destinata a durare molti mesi. Il WSJ ha scritto che “con i parametri attuali entro il 2021 sarà vaccinato il 10% della popolazione mondiale che diventerà il 20% nel 2022”. Il coronavirus è tra noi ed è destinato a rimanere tra noi. Col tempo riusciremo a prevenirlo e a curarlo. “La medicina ha abituato – hanno scritto ancora Corbellini e Mingardi nell’articolo citato – le persone a trovare le soluzioni dei problemi sanitari ma non ha reso consapevoli che ci vuole tempo e che non è onnipotente”. Se il covid-19 è destinato a far parte della nostra vita quotidiana è necessario trovare (quanto meno cercare) un punto intermedio fra le diverse istanze, stimando al meglio i rischi e proteggendo le categorie più fragili, partendo però da una “relativizzazione” del contagio e dei suoi effetti. Le parti sociali hanno fatto, nell’industria, un buon lavoro in tal senso consentendo alle aziende di riaprire in relativa sicurezza. E i risultati si vedono. Ma non si può continuare a massacrare inutilmente il terziario e i servizi.
Membro del Comitato scientifico ADAPT