Bollettino ADAPT 5 ottobre 2020, n. 36
Il 4 ottobre di 11 anni or sono moriva a Roma, dopo una lunga e debilitante malattia, Gino Giugni, all’età di 82 anni. Era nato, infatti, a Genova nel 1927, dove si era laureato nel 1949. Giugni non fu soltanto uno dei più grandi giuslavoristi della seconda metà del secolo scorso, autore di importanti testi di diritto del lavoro e sindacale, di saggi ed articoli.
Fu nella sua materia un capo scuola (all’ateneo di Bari), un Maestro di un filone di pensiero fecondo di cui sono testimoni tanti allievi. Giugni fu anche un uomo pubblico, un militante socialista che prese parte ai travagli e alle divisioni di quel partito, un autorevole parlamentare, un ministro, un protagonista dei più importanti provvedimenti e studi in materia di lavoro che restano dei capisaldi dell’evoluzione civile e sociale del Paese (a partire dal ruolo ricoperto nella promozione e nel varo dello Statuto dei Lavoratori).
In sintesi – se mi è consentito il bisticcio di parole – un riformatore nell’azione e un riformista nella cultura.
Io l’ho conosciuto, frequentato per molti anni in diversi ruoli, se posso permettermelo con rapporti di amicizia e di reciproca stima. Negli ultimi tempi, la vita ci aveva condotto su percorsi diversi. E questo è uno dei crucci che mi porterò appresso fino sull’orlo della tomba. Il pensiero di Gino fu per me una sorta d’illuminazione, come se fossi stato toccato dalla grazia di una fede.
Due suoi libri furono fondamentali nella mia formazione (anche professionale nel senso che il transfert con Giugni avvenne quando avevo appena intrapreso quell’attività sindacale che è stata l’esperienza fondamentale della mia vita). Dapprima, mi imbattei in un saggio, edito da Giuffrè (se ben ricordo nel 1964), dal titolo ‘’L’evoluzione della contrattazione collettiva nell’industria siderurgica e mineraria’’. L’interesse suscitato da questa lettura mi indusse ad affrontare un testo più impegnativo dello stesso autore: ‘’Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva’’ (Giuffrè 1960).
Quando mi cimentai con quel saggio non avevo tutte le conoscenze necessarie per comprenderne pienamente il significato. Per questi motivi la ‘’Introduzione’’ mi ha accompagnato lungo tutto il mio percorso prima di sindacalista, poi di cultore della materia, mentre nel tempo continuavo a chiedermi con stupore e ammirazione come avesse potuto un giovane giurista poco più che trentenne avere una visione che rappresentò una rivoluzione copernicana nello studio del diritto sindacale.
Di questi saggi ho parlato e scritto centinaia di volte, tanto che qualche eventuale lettore (certamente in numero assai inferiore dei ‘’venticinque’’ del Manzoni) dotato di buona memoria potrebbe rimproverarmi di dire sempre le stesse cose. Ma per me è come citare ciò che mi aveva colpito sulla mia ‘’via di Damasco’’.
Stavolta ho sentito l’esigenza di approfondire il contesto di cultura giuridica che aveva forgiato quel pensiero. In questa ricerca, mi è stato molto utile un saggio di Pietro Ichino, pubblicato l’anno scorso in occasione del X anniversario della morte di Giugni, sulla Rivista on line ‘’Lavoro Diritto Europa’’, curata da un magistrato di vaglia come il presidente Pietro Martello. Ichino in quell’occasione ha rivisto e ripubblicato alcune sue interviste a Gino Giugni, effettuate nel corso degli anni.
Per andare alle radici della ‘’svolta’’ di Giugni è interessante rileggere parti di quelle interviste riguardanti il più volte ricordato viaggio di studio negli Usa – grazie ad borsa Fulbright – che segnò – per diretta ammissione – la svolta più importante nella sua formazione. Durante la navigazione attraverso l’Atlantico conobbe il mio Maestro, Federico Mancini, il collega e amico di un’intera vita, che si recava negli States per i medesimi motivi. “Venni inviato – ricorda Giugni nell’intervista, all’Università del Wisconsin, che era, ma io non lo sapevo, la più rinomata in questo campo (del lavoro, ndr) …….. E l’incontro fu particolarmente fortunato; infatti venni iscritto alla Facoltà di Economia, dove però si insegnava l’economia secondo il metodo istituzionalistico. L’Università del Wisconsin era ancora dominata dalla grande personalità di John Commons, morto qualche anno prima. Vi insegnava Selig Perlman, che posso senz’altro definire come il mio primo maestro; ha avuto su di me un’influenza pari a quella, successiva, di Otto Kahn-Freund. Vi insegnava anche Edwin Witte, influente consigliere delle politiche sociali del New Deal, che costituiva, in tandem con Perlman, la coppia degli allievi prediletti di COMMONS. Ora, caratteristica dell’istituzionalismo economico era di studiare – prosegue Giugni – l’economia con un metodo giuridico, per cui studiando Commons studiavo l’economia da un punto di vista giuridico; ma valeva anche il reciproco: e cioè che studiavo il diritto dal punto di vista economico. Questo vale soprattutto per l’opera più significativa di Commons, The Legal Foundations of Capitalism (di cui esiste anche un’edizione italiana)”.
A questo punto Ichino, con una evidente curiosità professionale, chiede a Gino quale opinione si fosse fatto di Perlman, con cui aveva avuto un rapporto personale. Giugni risponde: “Perlman era un professore di rare qualità umane, come non ne avevo incontrato certamente nessuno in Italia; e anzi fu per me una esperienza esaltante quella di frequentare un istituto dove ci si occupava anche di me, sconosciuto studente straniero, e dove potevo conversare a lungo con i professori, con lui in particolare. Mi accorsi in seguito – chiarisce Giugni – che questa non era l’immagine vera e autentica dell’Università americana, in realtà molto spersonalizzata e alienata. Ma Perlman era un vecchio professore ebreo polacco di formazione mitteleuropea, rimasto affezionato alle sue origini e in particolare all’Italia, dove si era rifugiato dopo i pogrom del 1907; per cui mi dette più ascolto di quanto probabilmente meritassi’’.
Gino ribadisce, poi, l’importanza di quelle esperienze di formazione, tra tanti giovani come lui e lamenta che, in quegli stessi anni, nelle Università italiane si risentiva del clima politico generale, dove in sostanza non vi erano spazi aperti tra la cultura cattolica e quella marxista; nè spazi culturali, nè impieghi, nè posti di lavoro. “Si andava in America – sottolinea – per scoprire campi poco conosciuti in Italia: il pragmatismo, il positivismo logico, il realismo giuridico, l’economia keynesiana, la sociologia empirica; ma anche per fuggire, sia pure temporaneamente, da un ambiente così poco ospitale per gli uomini di cultura o aspiranti tali, quale era l’Italia degli anni ’50. Ricordo – viene allo scoperto il sense of humor di Gino – che in una lettera a un amico scritta mentre mi trovavo negli Stati Uniti mi chiedevo come mai tra i molti studenti italiani incontrati non ci fosse nessun democristiano; e mi davo poi la risposta: e cioè che i democristiani stavano bene in Italia”.
Quando conversava con Pietro Ichino, Giugni, forse, non immaginava che un giovane brillante di oggi direbbe le stesse cose, magari per motivi differenti, ma con i medesimi esiti. Poi rispondendo alla domanda sulla scuola di Bari, Giugni spiega nell’intervista: “La vera novità della scuola barese è stata quella di avere affrontato le ricerche empiriche, e questo già nel corso degli anni ’60: un primo gruppo di studi sulle differenze tra operai e impiegati nella contrattazione collettiva, che venne finanziato per un anno dalla Olivetti (poi arrivò la manna del CNR); a questa prima esperienza seguì la ricerca di gruppo sulla formazione extra-legislativa del diritto del lavoro, da cui nacque una serie di volumi, di Veneto e Gallotta, di Marisa De Cristofaro, ancora di Gaetano Veneto e di Bruno Veneziani, dove dominava il metodo interdisciplinare. Per una prima fase il lavoro era stato condotto in joint venture con l’Università di Bologna, e in particolare con il migliore allievo di Federico Mancini, che era Umberto Romagnoli, e con alcuni altri collaboratori, di cui si sono poi perse le tracce; per un certo periodo vi collaborò anche Giuliano Cazzola. Poi, però, la cooperazione venne meno e il gruppo di Bari proseguì da solo la ricerca”. Sinceramente non mi aspettavo di essere citato all’interno di un consesso tanto illustre; l’ho scoperto adesso mentre stavo scrivendo queste note. Mi ha sorpreso e mi ha fatto piacere. Un motivo in più per essere grato a Gino Giugni.
Membro del Comitato scientifico ADAPT