Bollettino ADAPT 10 ottobre 2022, n. 34
In una pausa del vertice di Praga, un compassato Mario Draghi è stato avvicinato da alcuni giornalisti che gli hanno domandato se durante la riunione i colleghi di governo degli altri Paesi gli avessero espresso delle preoccupazioni per il quadro politico emerso dalle elezioni del 25 settembre in Italia. Draghi, dopo qualche secondo di riflessione, ha risposo con uno di quei NO secchi che abbiamo imparato a conoscere, aggiungendo subito dopo di aver riscontrato soltanto della curiosità. A stare alle reazioni (tosto smentite) che ogni tanto filtrano dalle Cancellerie e dalle Istituzioni europee sarebbe opportuno qualificare meglio questo atteggiamento di curiosità, perché – in generale, ma ogni regola ha pur sempre le sue eccezioni – è difficile non intravvedere un po’ di preoccupazione, come del resto accade in Italia.
Da noi la tendenza dominante è quella di farsi reciprocamente coraggio. Ci sentiamo più o meno tutti come se ci avessero spalancato la porta della stanza della prima moglie Rebecca, chiusa dopo la sua morte. I cronisti politici e le grandi firme dei quotidiani seguono e commentano, nel bene o nel male, ogni parola scappata dalla bocca taciturna di Giorgia Meloni, al fine di interpretare le prossime mosse del suo governo. E se non c’è da temere per la stabilità del regime democratico sono molte e legittime le preoccupazioni per la linea di politica economica e finanziaria nell’ambito di un’idea di appartenenza all’Unione europea che Meloni intende cambiare. Non a caso, al convegno della Coldiretti, nell’unica occasione in cui ha parlato in pubblico dopo le elezioni, la premier in pectore ha voluto sottolineare la diversa “postura” che l’Italia, in nome della difesa degli interessi nazionali, terrà d’ora in poi nei consessi dell’Unione. Che poi vi siano motivi per sostenere che i governi italiani abituati a recarsi a Bruxelles al solo scopo di porgere le terga in pubblico, è tutto da dimostrare. Anzi, si vede benissimo che l’uscita di scena di Mario Draghi ha complicato la vita non solo agli italiani, ma anche ai governi e alle istituzioni della Ue.
Ma la pantomima del “battere i pugni sul tavolo” a Bruxelles è ormai “una storia che il popolo ancor beve”. In Italia si avvertono le stesse angustie – magari solo nei quartieri ZTL – che deve aver provato l’umanità cristiana all’avvicinarsi delle fine del primo secolo d.C. a causa della profezia del “mille non più mille”. Non tanto per questioni di liberà e democrazia in pericolo (nemmeno l’ANPI ci prova più), quanto piuttosto per la continuità dell’appartenenza ad un sistema politico ed economico (non si dimentichi mai che FdI non governerà da solo, ma con alleati imprevedibili e con tendenze “replicanti”). Ma il discorso di carattere politico è bene che non proceda oltre. Quale è la linea di condotta delle organizzazioni sindacali in questo frangente; è soprattutto come si sta comportando la Cgil, che svolge da tempo il ruolo del “mazziere” nella partita del sindacalismo confederale? Capisco che il mio giudizio è inquinato dai pregiudizi di un sindacalista/politico di altri tempi, ma non posso non esprimere un certo grado di insoddisfazione. È infatti “politicamente corretto” che un sindacato si rapporti con l’interlocutore/governo sulla base degli atti e delle politiche concrete. Ma in questo caso è apparsa troppo evidente che la sottolineatura di questa linea di condotta, a fronte delle caratteristiche del governo da un lato, della Cgil dall’altro, aveva un preciso significato politico: come se la Cgil volesse che non vi fossero dubbi sulla scelta consapevolmente compiuta: non già la neutralità rispetto all’indirizzo politico di un governo, ma addirittura l’indifferenza.
Il partito di Giorgia Meloni, emarginato durante tutti i decenni della storia repubblicana (fatto salvo lo “sdoganamento” da parte di Silvio Berlusconi dopo le abiure di Fiuggi), prima ancora che una legittimazione politica da parte dell’elettorato il 25 settembre, aveva ottenuto una “legittimazione sociale” da parte dei sindacati, con la Cgil a fare da capofila. All’Assemblea dei delegati a Bologna, con la campagna elettorale già in corso, Landini lasciò di stucco tutti gli osservatori, per i toni di equidistanza/indifferenza riservati all’esito che si stava profilando in modo sempre più chiaro. “Negli ultimi anni – così parlò il leader della Cgil – il mondo del lavoro, le lavoratrici e i lavoratori, i precari, i giovani non sono stati ascoltati. E addirittura le politiche fatte, in molti casi sia da governi di destra sia da governi che si richiamavano alla sinistra, hanno peggiorato la condizione di vita e di lavoro delle persone”. Pertanto la Cgil non avrebbe avuto posizioni pregiudiziali nei confronti di un governo di destra, riservandosi di giudicarne l’azione sulla base delle risposte fornite alle piattaforme sindacali.
Su questa storia dell’ascolto Landini ha intessuto una vera e propria trama degna di un film sulla incomunicabilità della prima fase di Michelangelo Antonioni, prendendosela con tutti i governi precedenti e dando credito alla disponibilità al dialogo annunciata da Meloni nella sua prima uscita pubblica. La leader di FdI e il suo entourage hanno notato questo inatteso riguardo che la Cgil non aveva mai avuto nei confronti degli esecutivi di centro destra presieduti da Silvio Berlusconi. Tanto che l’8 ottobre quando la Cgil ha manifestato a Piazza del Popolo. Giorgia Meloni si è risentita e ha pubblicato questo post: “Stiamo vivendo un paradosso in cui la sinistra, attualmente al governo, scende in piazza contro ‘le politiche del governo Meloni’ non ancora formato. Comprendo la voglia di protestare dopo anni di esecutivi inconcludenti che ci hanno condotto nell’attuale disastrosa situazione, ma il nostro obiettivo sarà restituire futuro, visione e grandezza all’Italia. A breve volteremo finalmente pagina”. “Oddio! Non si sarà mica offesa Giorgia?”: si sono chiesti a Corso Italia. Così Landini ha ritenuto di dover precisare, parlando a Piazza del Popolo: “Non siamo qui contro qualcuno ma perché venga ascoltato il lavoro”, ritornando come un disco di vinile rotto ai soliti argomenti: “Non abbiamo bisogno di uomini soli al comando – ha aggiunto il leader sindacale –. Abbiamo già pagato pesantemente in questi anni, sia per quelli che dicevano di essere di destra che di sinistra e poi facevano le stesse politiche. Bisogna trovare tutti insieme le soluzioni. In questi anni i governi e le opposizioni non hanno ascoltato le lavoratrici e i lavoratori, con scelte che sono andate nella direzione opposta. La condizione è peggiorata”.
A prova della ribadita indifferenza, in Cgil rammentano che la convocazione e il giorno della manifestazione (nella ricorrenza dell’assalto squadrista alla sede nazionale della confederazione) erano state decise prima delle elezioni, chiunque avesse vinto. Allora anche Meloni si è accorta di aver compiuto un passo falso e si è affrettata a rimediare, con una nota di FdI: “Non c’è alcuna relazione tra il post pubblicato questa mattina da Giorgia Meloni e la manifestazione della Cgil di oggi a Roma, che a quanto risulta non è stata organizzata per protestare contro Meloni. ll post del presidente di FdI si riferisce, infatti, alle manifestazioni organizzate nei giorni scorsi in varie città italiane, in cui tra le altre cose sono state bruciate in piazza delle immagini di Meloni”. L’incidente è chiuso. Poi si vedrà.
Membro del Comitato scientifico ADAPT