Politically (in)correct – Occupazione: smettiamo di farci del male!

Bollettino ADAPT 15 febbraio 2021, n. 6

 

Mercoledì, al Senato, Mario Draghi illustrerà il programma del suo governo. Conosceremo così quale sarà il contenuto della priorità che ha esposto nella prima riunione della compagine: vaccinazioni, lavoro, economia, scuola e ambiente. Forse saranno chiarite – sulla base di indicazioni concrete – le differenze tra il debito “buono” e quello “cattivo” e soprattutto quelle tra l’attuale esecutivo e il governo presieduto dall’altro Mario della storia recente: il professore che di cognome fa Monti.

 

In queste settimane di passione quasi tutti i protagonisti di quest’operazione che ha portato ad un governo autorevole, sostenuto da una larga maggioranza parlamentare, si sono sforzati di sottolineare quanto fosse diverso il nuovo esecutivo, a partire dal premier rispetto a quello insediato dal presidente Napolitano poco meno di dieci anni or sono. C’è sempre qualcuno che crede di essere l’inventore dell’acqua calda e di presentare l’ovvio alla stregua di una riflessione profonda. Monti aveva il compito di ridurre la spesa e rimettere in uno squilibrio accettabile i conti pubblici; la mission di Draghi – non è detto che sia più facile – è quella di impiegare bene ingenti risorse messe a disposizione dalla UE. Tutto ciò premesso, siamo sicuri che la profonda differenza del contesto in cui agire arrivi al punto di mutare anche gli indirizzi strategici delle due esperienze governative? La politica ha la memoria troppo corta per ricordarsi di quanto accadde quasi dieci anni or sono. Eppure per diversi aspetti la lettera – inviata da Draghi e da Jean Claude Trichet il 5 agosto del 2011 – che mandò a gambe all’aria un governo e tirò la volata a un governo tecnico presieduto da Mario Monti sembra scritta ieri, perché molte di quelle raccomandazioni perentorie sono ancora in attesa di adeguate soluzioni. Una sua rilettura ci consente di omettere quelle prescrizioni allora riferite alla riduzione dell’indebitamento e del debito e alla vigilanza sui titoli di Stato, essendo queste materie oggetto di quel “liberi tutti” che è divenuto – speriamo temporaneamente – il regime dell’Europa al tempo del Covid-19.

 

Osserviamo invece, a stralcio, le misure operative riguardanti questioni tuttora aperte perché accantonate o addirittura modificate in senso inverso. In quel testo veniva ribadita la strategia del rafforzamento della concorrenza, delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni, specie nella gestione e fornitura dei servizi. Anche le riforme fiscali avrebbero dovuto rendere più competitivo il sistema produttivo. Purtroppo, sotto la spinta della pandemia, è tornata a circolare, negli ultimi anni, una gran voglia di intervento dello Stato nell’economia, non già per sollecitare un’allocazione di risorse verso nuovi asset strategici, ma per garantire una gestione assistita ad aziende decotte, con rischio di trasformare la CDP non in un nuovo IRI, ma in una riedizione dell’EFIM (il lazzaretto delle aziende defunte, tenute in vita dai contribuenti). Agli obiettivi della maggiore competitività sarebbe stata necessaria, secondo la lettera, “una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”. A tal proposito va riconosciuto che – dopo la legge n.92/2012 sulla riforma del mercato del lavoro – il pacchetto del jobs act con i suoi decreti legislativi ha implementato la materia, con l’introduzione del contratto a tutele crescenti e la riforma degli ammortizzatori sociali. E, a dire il vero, per ora nessun governo si è azzardato a modificare questo impianto, salvo la scivolata del decreto dignità sulle condizionalità dei contratti a termine (a modifica del decreto Poletti del 2014) poi ricondotta ad un maggiore realismo (anche perché è in questa tipologia che si riscontra la caduta dell’occupazione).

 

Anche se non sono state modificate le norme le riforme del mercato del lavoro introdotte negli ultimi anni sono state “sospese” attraverso il blocco dei licenziamenti individuali e collettivi per motivi economici e le proroghe della cig da Covid-19, misure perfettamente allineate con l’idea che – passata la crisi sanitaria – tutto tornerà come prima e che, pertanto, per ora bastano i c.d. ristori sia dei redditi che dei fatturati perduti. In sostanza rimangono per aria quei provvedimenti chiamati a realizzare: “un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”. Invece le politiche attive sono state imbastardite con il reddito di cittadinanza, determinando una situazione fallimentare riconosciuta tale anche dalle forze politiche che si erano intestate quella misura. Quanto al sistema pensionistico la lettera aveva individuato nel ridimensionamento del pensionamento di anzianità una svolta rispetto alla principale anomalia dell’ordinamento. In questa direzione si era mossa la riforma Fornero nel 2011, ma nella XVIII legislatura l’introduzione di quota 100 e misure affini hanno rimesso il trattamento di anzianità al centro del sistema. Vi era poi, nella lettera, la segnalazione di alcune riforme tra cui quella fiscale e della sanità (ci siamo accorti nel 2020 quanto quest’ultima fosse urgente), mentre veniva raccomandato un radicale intervento sull’amministrazione pubblica sia nel suo ruolo di servizio all’economia, sia per i suoi costi e la sua inefficienza. A leggere con attenzione la lettera emergeva anche la strategia da seguire nel campo dei servizi: “attraverso privatizzazioni su larga scala”.

 

Ultima notazione disattesa, che Draghi dovrà affrontare negli incontri con i sindacati che hanno rimesso al centro della loro iniziativa la contrattazione nazionale di categoria: “C’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione” Se su queste problematiche sarebbe utile – mutatis mutandis – una linea di recupero per ripristinare un percorso di continuità di un indirizzo corretto anche se difficile, chi scrive ritiene indispensabile una cesura nei confronti della gestione della crisi sanitaria. Lo richiede ciò che è accaduto in queste ultime ore: il rinvio della stagione del turismo invernale. Le aziende e le attività economiche interessate hanno già subito pesanti tagli del fatturato in seguito alle restrizioni nelle festività natalizie e di capodanno. Si sono attrezzate per ripartire oggi come era stato previsto, ma l’autorizzazione è stata revocata all’ultimo momento in ragione di discutibili criteri di contenimento del contagio. In sostanza, attività economiche che sono in grado di lavorare e dare lavoro senza pretendere niente da nessuno potrebbero essere costrette a chiedere assistenza al governo. Ovviamente, non si deve abbassare la guardia nella tutela della salute, ma occorre cercare un migliore punto di equilibrio tra le diverse esigenze, perché le ragioni sanitarie non possono continuare ad essere l’unica variabile indipendente di questo difficile passaggio. Ecco perché accelerare il piano della vaccinazione è una assoluta priorità. Ma ormai ci siamo accorti che occorreranno tempi lunghi con risultati incerti, perché l’impegno produttivo ed organizzativo è comunque complesso e perché il virus evolve e va seguito e combattuto nelle sue varianti. Si riuscirà certamente a fare meglio, a predisporre vaccini per la prevenzione e una farmacologia adeguata alla cura (è questo ultimo l’obiettivo più importante per “convivere” con una malattia, verso la quale è possibile, nel medio periodo, solo un armistizio, non certamente una vittoria), ma è indispensabile adottare una strategia più flessibile e realistica nella lotta al contenimento. I dati dell’economia reale continuano a mettere in evidenza una non domata vitalità che emerge in modo incoraggiante ed imprevisto ogniqualvolta si allentano i ceppi delle misure di contenimento.

 

Fino a quando e per quanto tempo si potranno affrontare le grandi questioni (indicate da Draghi) del lavoro – e quindi dei giovani e delle donne – dell’economia e della scuola, se queste sfide vengono affrontate con una palla di piombo al piede o un braccio legato dietro la schiena?  Vedremo presto le intenzioni del governo Draghi in merito a questi problemi, benché nel confronto con i sindacati, il presidente Draghi abbia dovuto prendere nota delle solite richieste: la proroga della Cig da Covid e il blocco dei licenziamenti. Ovviamente senza dimenticare le pensioni. L’ex presidente della BCE ha più volte ribadito che le risorse vanno investite per produrre sviluppo e non ibernate in attesa di una resurrezione. È venuto il momento di spezzare la catena perversa tra chiusure e ristori. È tempo perso lamentarsi della disoccupazione prodotta per legge; sottolineare la caduta dei livelli di impiego dei giovani e delle donne quando è il “fuoco amico” a martoriare il settore dei servizi.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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