Bollettino ADAPT 16 gennaio 2023, n. 2
Salvo rinvii improbabili, il 19 gennaio il governo e i sindacati si incontreranno per avviare quel negoziato su di una riforma delle pensioni che dovrebbe essere “strutturale” e “superare in via definitiva” la normativa introdotta dal ministro Elsa Fornero alla fine del 2011. Prima di procedere oltre è sempre bene fare due premesse a futura memoria. La prima: anche se è consuetudine attribuire le riforme al ministro che le propone è corretto ricordare che il relativo provvedimento è varato dal Consiglio dei ministri che ne porta la responsabilità ed approvato dal Parlamento (nel caso della riforma Fornero con una maggioranza tanto ampia da essere considerata un evento eccezionale. La seconda: per uno scherzo del destino, i governi – magari con toni diversi – affrontano il tema del “superamento”, come se si trattasse di una cosa pacifica e acquisita per togliere di mezzo una legge sbagliata e pericolosa, senza che nessuno si chieda e spieghi il perché.
La riforma Fornero – la cui applicazione praticamente è stata sempre derogata – è come l’olio di palma. A un certo punto si è messa in giro la voce che questo prodotto fosse nocivo, costringendo così le aziende a scrivere sulle confezioni l’etichetta “senza olio di palma”, anche se non risulta che questa preclusione venisse imposta dalla legge oppure da una forma di autotutela delle imprese produttrici. Fino ad ora i governi italiani (tanto di sinistra quanto di destra) nei confronti della riforma Fornero si sono comportati come i castori che con le loro dighe deviano il corso delle acque, fino a quando, prima o poi il fiume ritornerà naturalmente sul suo alveo. L’ultima diga (la metafora sta per “quota” cadrà nel 2024) a meno che durante l’anno in corso il governo Meloni non trovi la pietra filosofale, in grado di tenere tutto insieme: andare in pensione il prima possibile con un trattamento il più elevato possibile, accontentando tutti gli idola tribus dei partiti e dei leader della coalizione, senza far saltare il sistema.
Al di là dei nominalismi, il problema, imposto dell’effetto congiunto dell’invecchiamento e del crollo della natalità, è elevare l’età effettiva del pensionamento alla decorrenza. È questo il solo modo per restituire un po’ di equità al sistema che sta per subire (anzi già subisce) lo scontro tra un numero crescente di pensionati anziani/giovani (provenienti da coorti con elevati livelli di natalità, in grado di far valere lunghi e continuativi periodi lavorativi e di godere di un’attesa di vita ragguardevole) e coorti di giovani fortemente ridimensionate nel numero e penalizzate nell’accesso al lavoro. Uno scontro che continuerà a determinare un numero crescente di pensioni, finanziate da un numero decrescente di contribuenti, peraltro penalizzati nel reddito rispetto ai trattamenti che sono chiamati a garantire a quanti sono usciti dal mercato del lavoro. Da noi, il meccanismo di quota 103 è la prova provata dell’imbarazzo del governo Meloni, nel senso che ha voluto adottare sperimentalmente per il 2023 una forma di pensionamento anticipato flessibile, relegandolo nel medesimo tempo in un contesto di vincoli che lo renderanno non conveniente.
Anche Oltralpe, Emmanuel Macron ha intenzione di aggiustare il sistema pensionistico francese, dopo averci provato inutilmente durante il primo mandato presidenziale. I punti chiave della riforma, proposti a nome del governo da Elisabeth Borne, sono i seguenti:
1. aumento dagli attuali 62 a 64 anni dell’ “età legale” del pensionamento;
2. carattere progressivo di questo aumento (per cui si arriverà a 64 anni nel 2030);
3. aumento, sempre in forma progressiva, del numero di anni necessari ad avere la pensione piena (fino ad arrivare ai 43 anni di contributi nel 2027, anziché nel 2035 come previsto dalla legge oggi in vigore) ;
4. deroghe per chi esercita mansioni usuranti;
5. misure a favore della ricostruzione delle carriere (tenendo anche conto dei “lavori di utilità collettiva”);
6. aumento della pensione minima, che sarà di 1.200 euro mensili lordi per chi abbia il massimo dei contributi.
Quanti hanno le orecchie attente a questa musica si renderanno certamente conto che si tratta di un insieme di misure ragionevoli che saranno strumentalizzate in Italia perchè quelle vigenti da noi sono apparentemente più rigorose. Ma lo scoglio che nessun governo francese è riuscito a superare fino ad ora è un altro: l’abolizione – per i futuri assunti – dell’eccezione costituita dai régimes spéciaux (come quelli presenti nel settore dei trasporti, con pensioni anticipate rispetto alle altre categorie). Questi regimi speciali si annidano nelle categorie dei servizi pubblici e privati indispensabili (come i trasporti e l’energia) e nel pubblico impiego.
In questi settori i sindacati sono arrivati a bloccare le attività per impedire i tentativi di riforma. Sono proprio i sindacati che non contano più nulla ad arroccarsi nei comparti dove hanno ancora un potere contrattuale in ragione della essenzialità dei servizi erogati e delle ricadute degli scioperi, magari un po’ selvaggi, sui cittadini, l’economia, la sicurezza. Dove emergono le più accanite resistenze? In Francia vi sono 42 casse e regimi specifici. La solidarietà tra le generazioni è la regola base; ovvero è previsto il classico finanziamento a ripartizione. Le tre principali sono il regime generale dei dipendenti del settore privato (80% dei pensionati), la Mutua sociale agricola (Msa) per i lavoratori agricoli e il regime delle professioni indipendenti. I regimi speciali – 11 in tutto – riguardano i pubblici dipendenti, le aziende e stabilimenti pubblici (tra cui Banca di Francia, compagnia ferroviaria Sncf, metro parigina Ratp, ecc), ma anche le professioni autonome (avvocati) oltre al fondo di solidarietà per gli anziani.
Oltre al regime base, i dipendenti hanno l’obbligo di versare contributi a casse dette complementari, e durante la pensione percepiranno un secondo trattamento previdenziale. Si tratta di un sistema molto complesso in quanto ogni cassa funziona in base alle proprie regole. Generalmente sono basate su sistemi a punteggi, convertiti in euro, il cui importo si somma a quello delle pensioni di base. Già i sindacati e le sinistre sono in agitazione dopo l’annuncio delle misure – graduali – che intende proporre il governo, ammesso e non concesso che vi sia nell’Assemblea nazionale una maggioranza che l’approvi. All’Assemblea nazionale la coalizione macronista ha solo la maggioranza relativa (250 deputati su 577). Le manca dunque un bel gruzzolo di voti per far passare tranquillamente il disegno di legge. I principali gruppi d’opposizione sono l’estrema destra del Rassemblement national di Marine Le Pen (88 deputati) e l’estrema sinistra della France insoumise (74) di Jean-Luc Mélenchon, decise a dare battaglia fino all’ultimo petardo polemico (una leader mélenchonista ha detto che i deputati del suo gruppo presenteranno “mille emendamenti a testa”). Da questo punto di vista i sindacati italiani fanno un figurone, non solo nei confronti di quelli francesi, ma anche di altri Paesi europei che stentano ad uniformare le regole. Perché da noi la battaglia per l’uniformità delle regole e non solo per i nuovi assunti l’hanno combattuta le grandi organizzazioni confederali, non senza dover vincere resistenze anche all’interno dei loro corpi associativi, in particolare nel pubblico impiego e nei servizi.
A metà degli anni ’90 la struttura del sistema pensionistico obbligatorio italiano consisteva in ben 47 regimi pensionistici (amministrati dagli enti previdenziali) così suddivisi: a) il regime generale dell’Inps con le sue quattro gestioni (lavoratori dipendenti, coltivatori diretti, artigiani e commercianti). Tra queste gestioni l’assicurazione generale obbligatoria per invalidità, vecchiaia e superstiti (Ago-Ivs) del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (Fpdl) è certamente la più consistente di tutti i regimi con circa 12 milioni di iscritti e 10 milioni di prestazioni erogate. b) I regimi sostitutivi dell’Ago-Ivs: dieci fondi di cui alcuni (autoferrotranvieri, telefonici, volo, dazieri, elettrici, clero e ministri del culto) con gestioni autonome presso l’Inps. I lavoratori dello spettacolo e assimilati sono iscritti all’Enpals, i giornalisti all’Inpgi, i dirigenti d’azienda dell’industria all’Inpdai. c) I regimi esclusivi dell’Ago-Ivs: nove gestioni nelle quali vanno collocati i dipendenti dello Stato (a carico del Tesoro), i ferrovieri, i postelegrafonici e le Casse ora amministrate dall’Inpdap (Cpdel per enti locali e personale del Servizio sanitario, Cps per medici, veterinari e ufficiali sanitari, Cpi per gli insegnati d’asilo, Cpug per gli ufficiali giudiziari e loro coadiutori). d) I regimi esonerativi: otto gestioni relative a fondi pensionistici di banche. Tali gestioni, insieme a due regimi esclusivi, sono state trasferite ad una gestione speciale dell’Inps a seguito della trasformazione dei relativi istituti in società per azioni, nel 1991. e) I regimi integrativi: tre gestioni presso l’Inps (minatori, gasisti, esattoriali). f) I regimi dei professionisti: dodici gestioni (notai, avvocati e procuratori, ingegneri, architetti, ecc.). g) Un regime assistenziale presso l’Inps che eroga la pensione sociale.
Tre istituzioni, l’Inps (per gran parte del mondo del lavoro privato), il ministero del Tesoro (per il personale dello Stato), l’Inpdap (l’Istituto dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche per il personale degli enti locali, del Servizio sanitario e di altri settori minori già ricordati) da sole coprivano il 93% dei quasi 22 milioni di assicurati ed erogano il 98% dei 16 milioni di pensioni allora esistenti, a cui andavano aggiunte le altre prestazioni previdenziali e assistenziali. L’Inps era già il vero architrave di tutto il sistema pensionistico; ad esso faceva capo l’87% della previdenza obbligatoria (col 62% imputabile al Fpld). L’Istituto di via Ciro il Grande era già un colosso dal punto di vista amministrativo e finanziario, il suo bilancio era secondo solo a quello dello Stato. I dati della sua attività istituzionale si riassumevano in poche cifre: 19 milioni di assicurati (85% della popolazione occupata), 1,2 milioni di aziende collegate, 14,2 milioni (pari al 10% del Pil, al 20% della spesa pubblica e al 45% della spesa per protezione sociale). Inoltre, l’Inps svolgeva il ruolo di ente collettore per conto dello Stato, curando la riscossione dei contributi per il finanziamento del servizio sanitario e delle imposte sul reddito.
L’Inps non si limitava ad erogare solo le pensioni ai lavoratori dipendenti ed autonomi, ma era titolare di altre prestazioni quali l’assegno al nucleo familiare, le indennità di malattia e di maternità, di mobilità e di disoccupazione, la cassa integrazione guadagni, le pensioni sociali, nonché di altri interventi di natura assistenziale raggruppati in un’apposita gestione. Il Tesoro operava come soggetto erogatore delle pensioni dei dipendenti dello Stato, della scuola e delle aziende autonome per i quali non era previsto alcun bilancio previdenziale/finanziario. Le prestazioni che questi pensionati percepivano erano in pratica una rendita vitalizia, i cui oneri erano direttamente a carico del bilancio dello Stato (al pari delle retribuzioni degli attivi) il quale tratteneva solo la quota dei contributi imputabile ai dipendenti. Una Gestione pensionistica per i dipendenti dello Stato fu costituita nell’ambito dell’Inpdap che costituì a partire dal 1994 un primo momento di aggregazione del pubblico impiego.
Dopo una seria di altri processi di accorpamento oggi, dal 2012, la previdenza obbligatoria in Italia è costituita da due grandi poli pubblici: l’Inps (che da ultimo ha incorporato anche l’Inpgi) che ha incorporato tutti gli enti erogatori di prestazioni pensionistiche, assistenziali, occupazionali, di sostegno al reddito e alla famiglia; l’Inail che ha incorporato tutti gli enti erogatori di prestazioni antinfortunistiche. Ma più che la dimensione dei processi organizzativi, il cui compimento è stato parecchio travagliato per tanti comprensibili motivi, l’aspetto più importante derivante dai decenni delle riforme/controriforme è stata la graduale ma crescente unificazione delle regole, nei criteri generali (del lavoro dipendente e autonomo) e nelle specifiche normative (del lavoro dipendente).
Intorno a questi due giganti, sopravvivono una ventina di casse c.d. privatizzate dei liberi professionisti. Il regime di privatizzazione (gestione autonoma di forme di previdenza obbligatoria, sotto la vigilanza del Ministro del Lavoro) degli Enti dei Liberi Professionisti è una caratteristica particolare del nostro sistema previdenziale. L’impianto strutturale (ovvero il rapporto tra iscritti e pensioni) di queste Casse per ora è sano: il rapporto iscritti/pensioni è attestato mediamente al di sopra del parametro 3,5 a fronte dell’1,4 riguardante il sistema pensionistico complessivo. Nel contesto attuale della previdenza obbligatoria, pertanto, il comparto dei liberi professionisti è quello che dovrebbe dare minori preoccupazioni. Ma il senso di responsabilità verso le generazioni future deve indurre gli amministratori delle Casse, in primo luogo, a far proprio il precetto evangelico dell’estote parati. A cogliere, cioè, le contraddizioni insite nel divenire dei processi economici ed occupazionali. Si consideri che l’Inps pure essendo suddiviso in circa 40 fondi e gestioni ha un bilancio unitario che consente di utilizzare i saldi attivi di alcuni settori per compensare quelli passivi. Una soluzione analoga ovvero la costituzione di un ente unico per le casse privatizzate potrebbe essere oltre che un segno di solidarietà della categoria, anche una garanzia di sostenibilità.
Membro del Comitato scientifico ADAPT