Bollettino ADAPT 30 ottobre 2023, n. 37
La linea è parecchio pasticciata, con soluzioni talmente arzigogolate delle quali è problematica la stessa utilità. Ma la svolta sembra esserci: l’obiettivo del ddl di bilancio 2024 in materia di pensioni non è più quello di favorire ma di scoraggiare il pensionamento anticipato. Il segnale è netto anche se confuso e non riguarda tanto lo specchio per allodole delle quote, dove Matteo Salvini con l’assillo di evitare il proseguimento del balletto si è accontentato di evitare quota 104 riciclando quota 103, ma corredandola di ulteriori vincoli e di disincentivi economici tanto da trasformare (a che pro?) la padella in brace.
Il clou del cambiamento proviene – se resta confermata nel testo – da una norma che chiude alla fine del 2024 (anziché due anni dopo) il blocco – sancito dal dl n. 4/2019 fino a tutto il 2026 – dall’adeguamento automatico all’incremento dell’attesa di vita che aveva inchiodato da allora i requisiti per il pensionamento anticipato a 42 anni e 10 anni per gli uomini e un anno in meno per le donne a prescindere dall’età. Una misura, questa, che si è rivelata spesso più conveniente del ricorso alle quote che prevedevano comunque un’età anagrafica più elevata – nonostante l’apporto di correttivi – di quella maturata dopo 42 anni e 10 mesi da un eventuale baby boomer, entrato presto nel mercato del lavoro e rimastovi in modo stabile a lungo.
Con questa revisione dal 1° gennaio 2925 il sistema ritornerebbe a viaggiare sui binari della riforma del 2011, anche se si renderanno necessari degli aggiustamenti sulla prospettiva, perché l’adeguamento automatico rischia di divenire un meccanismo perpetuo che va reso compatibile con i tempi della vita, soprattutto per quanto riguarda il requisito contributivo. Nel mondo del lavoro di ieri il conflitto sociale si è sviluppato sull’età pensionabile più che sul requisito contributivo che per l’assetto del mercato del lavoro (occupazione maschile prevalente, accesso anticipato nel mercato del lavoro, stabilità e continuità, ecc.); nel caso delle generazioni futuro (per ragioni simmetricamente opposte) non sarà un problema lavorare fino ad un’età più avanzata ragguagliata all’incremento dell’attesa di vita, ma diventerà più complesso accumulare importanti storie contributive. Sarebbe già un errore assumere come pilastro portante del sistema obbligatorio i 41 anni cari a Matteo Salvini.
Chi propone un requisito siffatto pensa a chi va in pensione domani e non c’è nulla di più sbagliato immaginare che questo requisito sia adatto anche per coloro che cominciano a lavorare domani. Nel sistema contributivo il rinvio del pensionamento ad un’età più congrua rispetto alle dinamiche demografiche non è soltanto un modo per contenere la spesa entro limiti sostenibili, ma anche per garantire un minimo di adeguatezza dei trattamenti essendo i moltiplicatori del montante contributivo ragguagliati all’età della quiescenza. Non a caso nella riforma Fornero, l’età pensionabile di vecchiaia e anticipata era subordinata all’adeguatezza del trattamento (1,5 volte l’assegno sociale nel primo caso e 2,8 volte nel secondo) per le pensioni calcolate interamente col contributivo. Nel ddl il governo ha deciso di mettere le mani “nel futuro” (perché ben pochi di quelli che vanno in pensione sono in regime solo contributivo per evidenti ragioni) abbassando al valore dell’assegno sociale, il “passaporto” per la vecchiaia: mentre quello dell’anticipo era stato innalzato dapprima a 3,3, poi ridotto a 3 con tanto di decalage per le donne con figli quello per l’anticipo.
Forse hanno pensato di venire incontro ai giovani, che, si dice e si teme, avranno pensioni basse a cui dovranno rimediare – secondo la nuova norma – più a lungo, essendo l’ammontare dell’assegno richiesto per avvalersi dell’anticipo ancora più elevato di prima (i sindacati chiedono di abbassare il moltiplicatore 2,8 – allineandolo ad 1,5 – perché continuano a restare attaccati alla minore età pensionabile possibile). Del resto è noto che oltre il 90% delle pensioni sono liquidate col regime misto; meno del 10% col contributivo. La ridefinizione del valore della pensione in modo utile all’anticipo nell’ambito del sistema contributivo potrebbe sembrare una “fuga in avanti” riguardanti una platea (i «contributivi» puri) che si sta ancora formando, essendo operante il regime per coloro che hanno la prima contribuzione accreditata dopo il 31 dicembre 1995. Tuttavia cominciano a presentarsi nel mondo delle pensioni anche trattamenti anticipati regolati dal solo regime contributivo. Nei primi 9 mesi del 2023 sono poco meno di seimila le pensioni tanto di vecchiaia che quanto di anzianità erogate dal FPLD-INPS.
È bene notare subito che il dato è spurio nel senso che vi sono comprese, sia le pensioni liquidate in regime contributivo puro sia quelle relative a coloro che pur essendo nel regime misto hanno esercitato la facoltà di opzione per il sistema contributivo, oltre a quelle delle lavoratrici che hanno esercitato la cosiddetta opzione-donna. La conferma di questa valutazione viene dal fatto che nella Gestione separata, operante dal 1° giugno 1996, per i lavoratori c.d. parasubordinati non è mai stato erogato fino ad ora un solo trattamento anticipato.
Vi è stata discussione nel governo e nella maggioranza sull’introduzione di una nuova quota (104 ovvero 63 anni di età e 41 di anzianità contributiva). Per superare le resistenze di Matteo Salvini, per il quale 41 è un numero magico che deve essere infilato in una norma a prescindere dalla sua utilità. Infatti, quando avremo i dati, ci accorgeremo quanto ha influito nel ridurre il numero delle pensioni il passaggio nel 2023 da quota 102 a quota 103, in conseguenza dell’incremento da 38 a 41 anni del requisito contributivo richiesto, pur in presenza di una diminuzione del requisito anagrafico. Il meccanismo delle quote non è per nulla flessibile, ma molto rigido; infatti non va raggiunta la somma dei due requisiti ma ciascuno di essi. E l’esperienza ha messo in evidenza che è molto difficile una convergenza nella medesima data. È quasi banale rilevare che se occorre lavorare ancora per completare anche uno solo dei due requisiti, necessariamente aumenta anche l’altro.
Nel disegno di legge di bilancio allo scopo di evitare una quota 104 politicamente controversa, è stata ampiamente rivisitata con vincoli e penalità la quota 103 già in vigore nell’anno in corso. La recente pubblicazione del Rendiconto sociale dell’INPS a cura del Comitato di indirizzo e vigilanza (CIV) ha segnato dei dati che consentono una riflessione sull’avventura delle quote, iniziata nel 2019 con una sperimentazione triennale di quota 100 allo scopo dichiarato di anticipare i pensionamenti per fare posto a nuove assunzioni (una speranza andata poi delusa). Le domande accolte per avvalersi di quota 100 fino a tutto il 2022 sono state più di 430mila; per quota 102 solo 5.843 di cui 2.376 donne e 3.467 uomini. Le pensioni di anzianità, nel 2022, sono state 125 mila per quanto riguarda i dipendenti privati, 78mila quelli pubblici, 66mila gli autonomi: il che significa che tanti lavoratori hanno preferito, avendone la possibilità, di avvalersi del pensionamento anticipato ordinario (42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne). Questa considerazione trova conferma anche se si osserva l’età media alla decorrenza dei trattamenti di anzianità nel 2022 ovvero 61,3 per gli uomini e 60,8 per le donne. Età medie sostanzialmente confermate anche nei primi 9 mesi del 2023 (rispettivamente 61,2 e 60,0).
Ma ogni intervento in materia di pensioni alla fine mette in evidenza un tallone di Achille che diventa una sorta di “ridotta della Valtellina” in cui si asserragliano gli ultimi resistenti. La riforma Fornero incappò nella vicenda degli esodati che dominò la scena per anni dando luogo a ben nove sanatorie che consentirono a 200mila lavoratori (quasi sempre esodati immaginari, riconosciuti tali dai talk show) di andare in quiescenza sulla base delle regole previgenti. Questa volta si direbbe che il “tallone di Achille” si trovi in una norma riguardante il pubblico impiego che abroga uno degli ultimi “privilegi” sopravvissuti all’armonizzazione dei trattamenti. Il problema riguarda la parte sottoposta al retributivo che viene definita, al momento della pensione, fino ad una certa data sulla base dell’ultima retribuzione. Poi sempre nel retributivo si pone una questione di rendimenti, nel senso che, mentre nei settori privati il rendimento era uniforme al 2%, nei regimi pubblici il rendimento dei primi 25 anni era maggiorato proprio per favorire l’esodo anticipato. Il superamento di queste differenze residue ovviamente è destinato ad incidere sul calcolo delle nuove pensioni, anche se le somme di lucro cessante che circolano in queste ore sui fogli dei sindacati e sui quotidiani, sembrano esagerati, anche perché non sono tanti i dipendenti pubblici, non ancora andati in quiescenza, che possono vantare una significativa anzianità contributiva prima del 1994 (quella cioè che veniva calcolata sulla base dell’ultima retribuzione percepita). Il percorso è comunque contorto e si muove in un ambito normativo specifico. È opportuno allora vedere come finirà questa storia.
Concludendo, ben al di là degli effetti delle norme che, alla fine, verranno introdotte dalla legge di bilancio, e nello stesso tempo rilevando le contorsioni con cui si sono trovate delle soluzioni, è evidente un cambio di passo: l’obiettivo non è più quello di favorire, ma di contrastare i pensionamenti anticipati in nome di vaghe esigenze di giustizia sociale. Un obiettivo complementare a quello di un sostegno della natalità, perché, prima di ogni altra considerazione di carattere economico e finanziario si pone una questione di platee: mentre il numero dei pensionati proviene da generazioni prolifiche e quindi numerose (per altro con storie lavorative lunghe e stabili e ancora in età intorno ai 60 anni al momento dell’accesso e con aspettative di fruizione almeno ventennale), quello dei contribuenti non potrà che diminuire in corrispondenza della progressiva riduzione delle nascite. E, ammesso che sia possibile, si potrà provvedere solo per il futuro, ma non si riuscirà mai a riequilibrare ex post le generazioni vittime della denatalità.
Pensionati su popolazione attiva
Fonte – elaborazione Antonietta Mundo 2023
Nel 2018 le opinioni correnti che da anni rimbalzavano dai Bar Sport di provincia alla politica e al sindacato, fino ad alimentare il luogocomunismo dei talk show erano le seguenti: i lavoratori hanno diritto di andare in quiescenza dopo un lungo periodo di sudore e fatica; prima vanno in pensione prima lasciano il posto di lavoro, divenuto per loro insostenibile, a un giovane disoccupato. Oggi si è cominciato a ragionare, anche in partibus infidelium, in un altro modo: con il pensionamento agevolato non si creano ma si perdono importati posizioni lavorative, che non vengono coperte non solo per inadeguatezza delle competenze professionali, ma anche e sempre di più, perché le generazioni che dovrebbero subentrare sono in numero inferiore di quelle che escono, a causa del motivo più banale che esista: non essere nati. Tutto ciò porta inesorabilmente a considerare diversamente l’apporto dell’immigrazione. In un tempo ravvicinato chi arrivava dall’altra parte del mondo era accusato di rubare il lavoro agli italiani. Oggi ci si rende conto che è vero il contrario. Sono gli italiani che hanno bisogno del lavoro degli stranieri. Resta solo da fare un passo in più, molto difficile ma inevitabile: quanti vengono da noi attraverso sacrifici inenarrabili non sono necessariamente un’emergenza; ma potrebbero divenire una risorsa.
Membro del Comitato scientifico ADAPT