Bollettino ADAPT 21 novembre 2022, n. 40
Comincia a diradarsi la nebbia che fino ad ora ha avvolto le proposte del governo in materia di pensioni. Resta assodato che nella legge di bilancio per mancanza di tempo e di risorse, non vi sarà una riforma strutturale (sic!) la cui definizione è rinviata all’anno prossimo, dopo il confronto con le parti sociali; pertanto la sua entrata in vigore decorrerebbe (il condizionale è d’obbligo) dall’inizio del 2024.
Per l’anno prossimo, oltre alla proroga di norme che verranno a scadenza il prossimo 31 dicembre (Ape sociale e opzione donna), il governo provvederà ad aggiustare lo “scalone” che si determinerà, in alcuni casi, tra il venire a scadenza di quota 102 (64 anni di età + 38 di contributi) e i 67 anni previsti dalla riforma Fornero per il trattamento di vecchiaia. È assai discutibile, come vedremo, che sia proprio necessario evitare che la problematica dell’età pensionabile rientri l’anno prossimi sui binari (invero malconci) previsti dalla riforma del 2011. Il dramma, anzi la commedia, dello “scalone” sta tutta qui: a partire dall’anno prossimo e fino a tutto il 2026, i soggetti che non potranno far valere (a prescindere dall’età anagrafica) il requisito contributivo del trattamento anticipato di 42 anni e 10 mesi se uomini e un anno in medo se donne, dovranno attendere i 67 anni, essendo venute a scadenza sia quota 100 (con 62 anni + 38), sia quota 102 (con 64 anni + 38). Ovviamente non vi è nulla di automatico, perché non solo i soggetti interessati potrebbero essere prossimi alla maturazione del requisito anticipato ordinaria, ma potrebbero usufruire di altre via d’uscita in grado di coprire la platea rimasta scoperta della scadenza delle quote.
Questo spazio temporale è costellato da numerose uscite di sicurezza che consentono l’anticipo della pensione: opzione donna per le lavoratrici (58/59 anni + 35 di versamenti, ma con l’applicazione del calcolo contributivo sull’intera anzianità di servizio); ape sociale per i soggetti che a 63 anni di età e 30 o 36 di contributi, a seconda dei casi, versino in particolari condizioni di difficoltà personali o famigliari o svolgano mansioni ritenute disagiate; quarantunisti precoci (possono andare in quiescenza, cioè, con 41 anni di versamenti a qualsiasi età) se hanno acquisito almeno 12 mesi di contributi prima dei 19 anni e si trovino nelle medesime condizioni previste per ottenere l’ape sociale. Poi, anche nel caso del sopravvalutato scalone, si potrebbero fare le medesime considerazioni che hanno riguardato il missile ucraino caduto in Polonia attribuendone comunque la responsabilità all’aggressore russo, quale responsabile unico del conflitto. Noi potremmo dire – mutatis mutandis – che se qualcuno rischia di inciampare nello “scalone”, la responsabilità è tutta di quel governo che ha voluto inserire in un percorso lineare relativo all’età del pensionamento, la deviazione triennale di quota 100, a cui occorre trovare rimedio.
Pare che per il 2023 la soluzione sia stata trovata nell’introduzione di una nuova quota contrassegnata dal numero 103 (62 anni di età + 41 di anzianità contributiva) al posto di quella in vigore (102). Può essere che il governo Meloni abbia compiuto, attraverso l’Inps (il Grande Fratello che ha i dati di tutti), una valutazione congrua sugli effetti di tale modifica. Il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon, in una recente intervista, ha parlato di un beneficio per 40-50mila lavoratori e del maggior onere di un miliardo che andrebbe ad aggiungersi a quello – ben più consistente – della rivalutazione automatica delle pensioni all’inseguimento di un’inflazione accelerata. Il ministro Giorgetti lo ha quantificato in 50 miliardi in un triennio; magari saranno solo 32-33 miliardi, ma comunque una bella somma che entrerà stabilmente nel sistema.
C’eravamo abituati ad una inflazione di pochi decimali; ora occorre mettere in conto anche la lievitazione automatica della spesa pensionistica in rapporto al costo della vita. L’incremento è tanto insolito che nel dibattito sembra essere una conquista dei sindacati, mentre è stato il governo Draghi, nella legge di bilancio per l’anno in corso a ristabilire l’indicizzazione “storica” (100% fino a 3 volte il minimo; 90% da 3 a 5 volte; il 75% per le quote successive) dopo un decennio di ricorrenti manipolazioni per fare cassa. Tornando a quota 103, è evidente che è stata scelta perché al suo interno c’è quella che impropriamente viene chiamata “quota 41” (con riferimento al requisito di anzianità caro alla Lega e ai sindacati). Da dove derivi l’idolatria per questo numero è un mistero. Si sono fatte diverse ipotesi: in primo luogo 41 ha in sé la malia dei numeri primi (un numero naturale, maggiore di 1, si dice primo se è divisibile solo per sé stesso e per l’unità); ma di numeri primi ce ne sono tanti nei pressi di 41 ed ognuno di essi (43 o 39) potrebbero svolgere più o meno la medesima funzione. Si è pensato, quindi, alla cabala e si è trovata una spiegazione più pertinente.
Nella Kabbalah o cabala il numero 41 è collegato alle persone con uno squilibrio spirituale. Proprio come quello di cui soffrono coloro che insistono da anni per l’introduzione di questo requisito quale perno del sistema pensionistico, come se Cipputi fosse l’eterno prototipo del lavoratore. Ma, premesso che un ragionamento compiuto si potrà fare solo in presenza della norma, varrebbe la pena di porsi qualche domanda. Da quanto si è capito non è sufficiente arrivare a quota 103 sommando addendi dotati di una certa flessibilità: per esempio, 63 + 40 oppure 64 + 39 o 61 + 42. Sono – a quanto pare – requisiti rigidi sia quella anagrafico di 62 anni che quello contributivo di 41 anni. Era così anche nei casi di quota 100 e di quota 102. Se i due requisiti non concorrevano a raggiungere la quota insieme e nello stesso arco di tempo (cosa che è avvenuta un numero limitato di volte), gli anni mancanti a maturare uno dei requisiti determinavano un innalzamento anche dell’altro. Per capirci: se, vigente quota 102, un soggetto nell’anno in corso si trovava ad avere 64 anni di età ma 36 di contributi, avrebbe potuto raggiungere i 38 anni canonici a 66 anni (un anno prima del requisito di vecchiaia). Siamo consapevoli che – avendone le condizioni previste – il soggetto avrebbe potuto usufruire di altre uscite di sicurezza; in caso contrario la logica disgiunta dei requisiti necessari non lasciava scampo. Un problema analogo di porrà anche con quota 103.
Il feticismo per quota 41 e il vizio ricorrente di abbassare l’età pensionabile sembrano condurre il governo ad abbassare l’età minima a 62 anni e ad alzare il requisito minimo a 41 anni, mentre in precedenza dal passaggio da quota 100 a 102, a fronte dello stesso requisito contributivo (38 anni) era in crescita il parametro anagrafico. Se non saranno introdotti correttivi, peraltro molto onerosi, tali da rendere flessibili non la somma ma gli addendi, dobbiamo aspettarci altri scaloni, determinati dalla inversione tra i criteri della età e della anzianità. Mettiamo il caso di un soggetto che nel 2022 abbia maturato 62 anni e 38 di contributi. A legislazione vigente (ancorché in scadenza), avrebbe dovuto lavorare altri 2 anni per arrivare a 64 anni (acquisendo di conseguenza 40 anni di anzianità contributiva). Questa stessa persona, nel 2023, si troverà ad avere 63 anni e 39 di contributi. Per arrivare a 41 dovrebbe lavorare altri due anni e raggiungere 65 anni di età. In ambedue i casi quel soggetto l’anno prossimo non andrà in pensione. Parafrasando Nanni Moretti quel soggetto si starà chiedendo: è più conveniente quota 102 o quota 103?
Membro del Comitato scientifico ADAPT