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Il progetto del governo Conte (Carneade? Chi era costui?) in materia di pensioni allo scopo di dare uno “stop” (è la parola usata nel contratto) alla riforma Fornero, ricorda la tipica e variopinta bambolina russa a più strati, ognuno dei quali si apre per farne uscire un’altra figura, identica, ma di minori dimensioni. All’inizio avevo pensato di utilizzare un paragone più consono alle tradizioni italiane: un uovo di Pasqua con sorpresa al suo interno. Poi mi sono ricordato che la nuova maggioranza “tifa” per Putin ed ho ritenuto più pertinente evocare una Matrioska, anche perché la vivacità dei suoi colori rendono bene l’idea delle contumelie che i nuovi “padroni del vapore” rivolgono da sempre alle norme introdotte nel 2011 e ad Elsa Fornero. Bene. Cominciamo dal primo involucro. Lo troviamo, nel contratto, nel brano che riportiamo di seguito (escludendo per il momento di commentare la reintroduzione della c.d. opzione donna ed ignorando la riproposizione della solita leggenda metropolitana della separazione tra previdenza ed assistenza).
“Occorre provvedere all’abolizione degli squilibri del sistema previdenziale introdotti dalla riforma delle pensioni cd. “Fornero”, stanziando 5 miliardi per agevolare l’uscita dal mercato del lavoro delle categorie ad oggi escluse. Daremo fin da subito la possibilità di uscire dal lavoro quando la somma dell’età e degli anni di contributi del lavoratore è almeno pari a 100, con l’obiettivo di consentire il raggiungimento dell’età pensionabile con 41 anni di anzianità contributiva, tenuto altresì conto dei lavoratori impegnati in mansioni usuranti”.
È questa la proposta (di matrice leghista) su cui si è discusso di più e sulla quale si sono concentrati gli interessi dei media, trascurando, invece, un altro capitolo introdotto nel programma su istanza del M5S – la pensione di cittadinanza – nonostante il suo impatto sui costi e sull’equilibrio strutturale del sistema. Restiamo, allora, sull’aspetto (quota 100 e 41 anni di servizio) che pretende di consegnare all’eternità quella pensione anticipata/anzianità che ha assai contribuito a determinare l’insostenibilità dei conti pensionistici. Nel valutare tale proposta gli osservatori hanno concentrato le loro critiche sulle coperture, sostenendo che 5 miliardi non sarebbero sufficienti (questo dibattito sulle coperture è singolare, perché non si interroga sul merito delle proposte, come se – risolto il problema finanziario – le misure annunciate fossero utili ed opportune). A queste critiche ha risposto colui che si è attribuito il merito di aver redatto il programma (il prof. Alberto Brambilla, presidente della Fondazione Itinerari previdenziali ed esperto riconosciuto ed apprezzato del settore). A chi gli ricordava le critiche rivolte da più parti sull’inadeguatezza delle coperture, Brambilla, in una intervista ha replicato così:
“Perché non si conosce la proposta. L’idea è di mandare in pensione chi ha almeno 64 anni con 36 di contributi. Oppure 41 anni e mezzo di contributi, a prescindere dall’età e non più di 2-3 anni di contributi figurativi, per escludere chi è stato in cassa integrazione per 10 anni, ad esempio”.
“Gatta ci cova”, mi sono detto. Fanno capolino dei chiarimenti importanti che cambiano in parte lo scenario esposto nel contratto. Ma se ne stanno rendendo conto gli elettori dei partiti di maggioranza? Proviamo a spiegarglielo. Innanzi tutto, indicare, per giunta in modo rigido, una età minima significa delimitare il campo degli aventi diritto. Per di più la soglia dei 64 anni non è solo più elevata di quanto previsto per usufruire – alle condizioni previste – dell’Ape sociale (che sarebbe abolito), ma anche dell’età effettiva (intorno a 61-62 anni) che sono in grado di far valere le attuali generazioni di pensionandi che si avvalgono del pensionamento anticipato made in Fornero.
Un’altra ipotesi, accennata nell’intervista, avrebbe degli effetti significativi: quella di poter computare nei 41 anni – a prescindere dall’età anagrafica – soltanto 2-3 anni di contribuzione figurativa. Il che comporterebbe la necessità di lavorare per 43-44 anni, se nel corso della vita attiva, l’interessato avesse dovuto avvalersi di lunghi periodi coperti da contribuzione figurativa (maternità, congedi, cassa integrazione, disoccupazione, malattia, infortunio, ecc,).
Ma le sorprese non sono finite. Per le nuove pensioni, il periodo intercorrente tra il 1° gennaio 1996 e il 31 dicembre 2011 sarebbe calcolato con il metodo contributivo anche per coloro ai quali la riforma Dini aveva garantito la permanenza nel retributivo (quanti, alla fine del 1995, avevano maturato almeno 18 anni di anzianità contributiva). In sostanza, quello che non si ebbe il coraggio di fare allora (cioè passare tutti al calcolo contributivo pro rata dal 1° gennaio 1996) e che la riforma Fornero ha introdotto, pro rata, dall’inizio del 2012, verrebbe attuato ora in modo sostanzialmente retroattivo. Sfugge la logica (ammesso che ve ne sia una) di un’impostazione siffatta rivolta (forse) ad anticipare di poco la possibilità di andare in quiescenza a spese della adeguatezza dei trattamenti, che risulterebbero, in linea generale, ridotti.
E che fine farebbe l’aggancio automatico dell’età all’incremento dell’attesa di vita? Secondo Brambilla resterebbe in vigore solo per le pensioni di vecchiaia, solitamente riservate alle donne e ai settori deboli del marcato del lavoro.
Occupiamoci ora della c.d. pensione di cittadinanza, a cui tiene in particolare il M5S in coerenza con l’impostazione assistenzialistica del suo programma (vedi il reddito di cittadinanza). Premesso che garantire un trattamento mensile di 780 euro lordi, incentiverebbe – al di là dei costi – l’evasione contributiva, dal momento che spetterebbe allo Stato di assicurare un reddito dignitoso ai pensionati, occorre precisare quale sia la platea dei beneficiari. Attualmente, secondo l’INPS, il 62,2% delle pensioni ha un importo inferiore a 750 euro. Percentuale che per le donne raggiunge il 75,5%. Tuttavia, degli 11,1 milioni di pensioni con importo inferiore a 750 euro, solo il 44,3% (4,9 milioni) beneficia di prestazioni legate a requisiti reddituali bassi, quali integrazione al minimo, maggiorazioni sociali, pensioni e assegni sociali e pensioni di invalidità civile. Per avere diritto a queste ulteriori agevolazioni è necessario che il reddito, non solo stia all’interno di un tetto indicato per il singolo e la coppia, ma derivi unicamente da pensione. La stessa limitazione era prevista, pure ai tempi del famoso milione di lire lordo mensile disposto dal governo Berlusconi. Immaginiamo che venga confermata l’ipotesi meno onerosa, anche in considerazione delle ridotte risorse disponibili a fronte di innumerevoli propositi di incremento di spesa.
Membro del Comitato scientifico ADAPT