Bollettino ADAPT 12 febbraio 2024, n. 6
Fabio Panetta ha esordito al Forex nella sua qualità di Governatore della Banca d’Italia. Nel suo intervento sono presenti alcune significative considerazioni sul mercato del lavoro. Va segnalata innanzi tutto una spiegazione di uno dei grandi misteri dei trend occupazionali che hanno toccato e mantengono, per ora, nonostante performance di sviluppo stentate, picchi da record sia per quanto riguarda la quantità e la qualità dell’occupazione. “L’aumento dell’occupazione – ha affermato Panetta – rappresenta una positiva eccezione a questo quadro di bassa crescita. La domanda di lavoro è stata sostenuta dapprima dal balzo produttivo post-pandemico e poi dalla ricomposizione dell’attività verso processi ad alta intensità di manodopera, resi più convenienti – ha aggiunto – dai rincari energetici. Nel 2021 e in buona parte del 2022 il numero delle posizioni lavorative vacanti è aumentato. Le difficoltà incontrate negli anni recenti nel reperire manodopera hanno indotto le imprese a trattenere i lavoratori anche in misura superiore al fabbisogno. Ciò ha sostenuto l’occupazione e i consumi. Qualora la debolezza dell’attività economica proseguisse – ha avvertito il Governatore -, le imprese potrebbero ritrovarsi nella condizione di dover ridurre in misura significativa gli organici. Segni di rallentamento del mercato del lavoro stanno già emergendo: il numero delle posizioni vacanti è in calo continuo dal picco raggiunto nella primavera del 2022’’.
Ha pesato molto sui redditi e le pensioni l’impennata inflazionistica determinatasi tra la fine del 2022 e il 2023 che ha indotto la Bce ad alzare il tasso di sconto, suscitando polemiche, preoccupazioni e critiche. Quando era membro del board di Francoforte aveva fama di colomba rispetto al rigore di cui è stata protagonista Cristine Lagarde. Al Forex però il Governatore esprime un giudizio di condivisione degli effetti antinflazionistici della manovra del tasso di sconto. “Nell’ultimo biennio – ha ricordato Panetta – la politica monetaria della BCE è passata in modo repentino da un orientamento molto espansivo a uno nettamente restrittivo. A fronte degli shock inflazionistici di proporzioni storiche generati dalle strozzature nelle catene di produzione globali e dal rincaro dell’energia, questo cambio di passo è stato necessario. Si può discutere – e lo abbiamo fatto – della gradualità e dell’intensità dell’azione della politica monetaria, ma un fatto è innegabile: è stato evitato che l’inflazione si autoalimentasse e divenisse endemica. Le aspettative di inflazione nel medio termine sono rimaste ancorate all’obiettivo del 2 %, condizione indispensabile per la stabilità dei prezzi. Ciò ha limitato il costo della disinflazione, che finora – la sottolineatura è importante – si è realizzata senza una profonda recessione. Affinché questo sia il verdetto finale, l’inflazione sia debellata e l’economia possa riprendere un sentiero di crescita e stabilità, è cruciale che le prossime decisioni siano coerenti con il quadro macroeconomico che abbiamo di fronte’’.
Ricordiamo come, nel cuore dell’improvvisa impennata dell’inflazione, si è temuta la rincorsa salari/inflazione che non c’è stata e che ha contribuito al raffreddamento della dinamica del costo della vita. Nel 2023 le retribuzioni sono aumentate del +3,1%, circa metà del +5,9% fatto segnare dall’inflazione. Per quanto riguarda le pensioni è stata prevista dalla legge di bilancio, una manovra al ribasso con riguardo alla rivalutazione automatica al costo della vita per i trattamenti più elevati. In sostanza, queste considerazioni inducono il Governatore a passare oltre le preoccupazioni determinate dall’improvvisa accelerazione del costo della vita. “Quanto ai rischi per l’inflazione, voglio innanzi tutto sottolineare – ha affermato Panetta – che i principali timori sollevati in passato si stanno rivelando infondati”. Tuttavia, “resta il rischio che una dinamica ancora robusta dei salari nominali possa alimentare nuovamente l’inflazione. Questa eventualità non va sottovalutata – ha osservato il Governatore -, ma le preoccupazioni si attenuano se si leggono i dati con attenzione.
Il lavoro è solo uno dei fattori di produzione e la sua incidenza sui costi totali delle imprese è ben inferiore a quella dei beni intermedi e dell’energia. La crescita attuale dei salari, pur superiore a quella del biennio 2021-22, è compensata dalla riduzione degli altri costi in atto da mesi. L’aumento dei costi complessivi delle imprese – che rappresenta la determinante primaria dell’inflazione – si è pertanto via via affievolito fino ad annullarsi, attenuando le pressioni inflazionistiche. Coerentemente con questi andamenti, le aspettative delle imprese non prefigurano un’accelerazione dei costi totali nei prossimi mesi. Alla stagnazione dei costi di produzione totali si aggiunge – secondo il Governatore – la debolezza della domanda di beni e servizi, che rende le imprese meno propense a traslare sui prezzi un eventuale aumento dei salari, per paura di perdere quote di mercato. Oggi la probabilità – la sottolineatura va notata – che un ipotetico rafforzamento della dinamica salariale dia il via a una tardiva rincorsa salari-prezzi è pertanto esigua. Per di più, con pressioni inflazionistiche che volgono al ribasso e profitti delle imprese elevati, un qualche recupero del potere d’acquisto dei salari, dopo le perdite subite è fisiologico e potrà sostenere i consumi e la ripresa dell’economia’’.
Queste ultime considerazioni sono state interpretate (correttamente) come un invito ad aumentare le retribuzioni. Il richiamo non può che essere rivolto alle c.d. parti sociali, in particolar modo, ai sindacati che negli ultimi anni hanno spostato la loro iniziativa nei confronti dei governi e delle politiche pubbliche, come se – nonostante le dichiarazioni bellicose e gli scioperi generali rituali e con obiettivi generici – fossero i primi a non voler alimentare una spirale inflazionistica. Non è gratificante essere richiamati a svolgere il proprio ruolo specifico dalla Banca d’Italia, solitamente individuata come una propagandista di quel rigore che ai sindacati non piace. Eppure se leggessimo le riflessioni di Panetta con un occhio attento al Rapporto Istat sulla contrattazione collettiva e le retribuzioni avremmo una spiegazione (per quanto parziale) del perché le retribuzioni sono basse e in termini reali praticamente al ribasso rispetto al potere di acquisto.
Alla fine di dicembre risultano in vigore 44 contratti che regolano il trattamento economico di circa 5,9 milioni di dipendenti (47,6% del totale) e corrispondono al 48,1% del monte retributivo complessivo. L’incidenza percentuale del monte retributivo dei dipendenti con contratto in vigore è pari al 63,7% nel settore privato, con quote differenziate per attività economica: 100,0% nel settore agricolo, 92,5% nell’industria e 37,0% nei servizi privati. Nella pubblica amministrazione l’incidenza è pari a zero, in quanto tutti i contratti sono scaduti. Complessivamente, nel corso del 2023 sono stati recepiti 13 contratti: sei nell’industria e sette nei servizi privati che hanno coinvolto complessivamente circa 1,4 milioni di lavoratori dipendenti, per un monte retributivo pari all’11,8% del totale economia. I contratti siglati più rilevanti – in termini di dipendenti coinvolti – sono quelli del credito e dei servizi socio assistenziali. Nel mese di dicembre 2023, la quota di dipendenti in attesa di rinnovo è pari al 52,4% per il totale dell’economia, quota in aumento rispetto al mese precedente (quando era il 51,1%) e rispetto a dicembre 2022 (49,6%). In media, i mesi di attesa per i lavoratori con il contratto scaduto sono 32,2, in aumento nel confronto con dicembre 2022 (24,8); anche l’attesa media calcolata sul totale dei dipendenti aumenta, passando da 12,3 mesi di dicembre 2022 a 16,9 mesi. Nel settore privato, la quota dei dipendenti in attesa di rinnovo è pari al 38,3%, in aumento sia rispetto al mese precedente (36,6%) sia rispetto a dicembre 2022 (34,7%); i mesi di attesa per i dipendenti con il contratto scaduto sono 38,6 e scendono a 14,8 mesi se calcolati su tutti i dipendenti del settore. Se si fanno i conti, 38 mesi sono più di 4 anni.
Quanti scioperi generali sono stati effettuati in questo arco temporale? Ma forse c’è un problema di carattere strutturale. Il contratto nazionale di categoria è tuttora il perno del sistema delle relazioni industriali. Anzi, negli ultimi anni, almeno nel dibattito, questo livello di contrattazione ha riacquistato tutta la centralità che aveva perduto a favore di forme più decentrate e flessibili di contrattazione, peraltro corredate, per i loro contenuti, di benefici di carattere fiscale. Il ruolo del contratto collettivo di categoria potrebbe addirittura essere ulteriormente rafforzato nel quadro di interventi che riguardino il combinato tra la disciplina della rappresentanza e l’efficacia erga omnes. Ciò in una situazione in cui questi problemi sono già risolti nei fatti, essendo il 97% dei lavoratori dei settori privati “coperti” da un contratto nazionale sottoscritto da strutture riconducibili alle tre confederazioni storiche. Ma se questo sistema non funziona più non servirebbe a nulla blindarlo per legge.
Membro del Comitato scientifico ADAPT