Politically (in)correct – Politica industriale: nostalgia dell’IRI?

Bollettino ADAPT 5 febbraio 2024, n. 5

 

Il piano di privatizzazioni per 20 miliardi fino al 2026, contenuto nella Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Nadef) del governo Meloni, aveva sollevato, a suo tempo, alcuni dubbi non infondati. Il primo riguardava la possibilità di realizzare un’operazione di tale portata nell’arco di tre anni. Il secondo era di carattere strategico e riguardava: quali quote cedere nell’attuale situazione di mercato tenendo conto delle prospettive dei settori produttivi. Poi ci si domandava legittimamente se le risorse sarebbero servite a ridurre il debito o ad essere inghiottite dalla spesa corrente. Ma il dubbio più rilevante chiamava in causa la credibilità del governo nel proposito di varare un programma di privatizzazioni. Dal canto suo le opposizioni non avevano rinunciato ad una polemica grossolana che ormai contraddistingue la loro linea di condotta: il governo veniva accusato di svendere i gioielli di famiglia e di rinunciare ad asset strategici per incapacità di effettuare una politica industriale orientata allo sviluppo.

 

In effetti, forse ci eravamo illusi che l’aria fosse cambiata quando il ministro Giancarlo Giorgetti è riuscito a liquidare – dopo decenni trascorsi a gettare risorse in un buco nero – l’affaire Alitalia e a costituire sulle macerie di quella che fu la compagnia di bandiera, un’impresa (ATI) in grado di stare sul mercato, con tutte le opportunità del caso (ivi compreso l’ingresso di Lufthansa). Ma una rondine non fa primavera. Anzi è forte la propensione di questo governo – anche se in alcune circostanze è stato tirato per i capelli da scelte compiute da quelli precedenti – ad infilarsi nel capitale sociale di aziende private. In taluni casi è la realtà a non lasciargli scampo e a non consentirgli alternative. Si pensi all’ex Ilva (de cuius di Acciaieria Italia) nelle condizioni in cui versa dopo essere stata sottoposta allo tsunami giudiziario che ha fatto da braccio armato del fondamentalismo ambientalista e dell’opportunismo della politica.

 

Il punto lo ha tracciato su Il Foglio, Annarita Digiorgio, che ha seguito da tempo il caso dello stabilimento siderurgico di Taranto senza prestarsi a cavalcare il “politicamente corretto”: Sono più di 19 mila le istanze presentate dai creditori all’amministrazione straordinaria del 2015, per un ammontare di oltre 5 miliardi di crediti mai versati. Per assurdo, a oggi gli unici rimborsati da Ilva in As sono i residenti del quartiere Tamburi che hanno avuto diritto al risarcimento per gli appartamenti deprezzati. Tutti gli altri (fornitori, banche, indotto) sanno che non vedranno un centesimo: “Un bidone di stato”. E un altro se ne prepara – ha proseguito la giornalista – Solo le ditte di Taranto, circa 145, sono creditrici di Acciaierie d’Italia per 120 milioni. Non è un caso che oltre l’80 per cento, non sentendosi tutelato, è uscito da Confindustria. Il giorno in cui il governo ha rotto con Mittal, le banche gli hanno bloccato gli anticipi. Le aziende fornitrici hanno bloccato la statale Appia finché Urso non le ha incontrate, senza però dare alcuna rassicurazione. Il ministro ha scaricato tutte le responsabilità tutte sulla a.d. Lucia Morselli. Difficilmente si potrebbe assicurare loro una garanzia pubblica sul credito, generando una norma contro cui gli insinuati al passivo del 2015 si appellerebbero. E a quel punto i 5 miliardi del “bidone” da coprire, si aggiungerebbero agli altri 5 necessari per il rilancio dello stabilimento.

 

Intanto il governo ha varato il c.d. decreto recante disposizioni urgenti a tutela dell’indotto delle grandi imprese in stato di insolvenza ammesse alla procedura di amministrazione straordinaria. Ma il provvedimento è stato criticato dalla Fiom che all’ex Ilva non è il sindacato più importante: “Il decreto non scongiura i licenziamenti – ha dichiarato Loris Scarpa, responsabile della siderurgia – non introduce l’ammortizzatore sociale unico in grado di garantire la continuità occupazionale e l’integrazione salariale per i lavoratori, soprattutto non prevede la continuità produttiva degli stabilimenti ex Ilva e delle aziende dell’indotto”. Il resto lo ha aggiunto il ministro Adolfo Urso parlando al Senato:’’ «Intendiamo invertire la rotta cambiando equipaggio. Ci impegniamo a ricostruire l’ex Ilva competitiva sulla tecnologia green su cui già sono impegnate le acciaierie italiane, prime in Europa». L’impianto secondo Urso «è in una situazione di grave crisi. Nel 2023 la produzione si attesterà a meno di 3 milioni di tonnellate, come nel 2022, ben sotto l’obiettivo minimo che avrebbe dovuto essere di 4 milioni, per poi quest’anno risalire a 5 milioni».

 

Ma quando lo Stato si accolla una fabbrica moribonda con 20 mila famiglie da mantenere e con tutto l’indotto di una regione, si dovrebbe scrivere sul portone di ingresso “Lasciate ogni speranza o voi che entrate’’. Il fatto che i sindacati – dopo aver assistito impotenti e complici al massacro dell’ex Ilva mostrando un’enorme coda di paglia nei confronti dei circoli ambientalisti e della magistratura – oggi insistano per una nazionalizzazione è la dimostrazione che da lì non si tornerà più indietro perché – come si diceva un tempo – al riparo dello Stato non piove mai. Questa volta, però, saranno necessari stanziamenti ingenti per gli ammortizzatori sociali oltre che per tacitare i fornitori. Anche le promesse sul versante dell’occupazione non potranno essere mantenute se non in misura limitata. Perché anche se dovesse rinascere la nuova Ilva non sarà in grado di riassorbire tutti i dipendenti di quella vecchia. La prospettiva è quella di avere a Taranto e in Puglia un esercito di riserva destinato a rimanere tale, a carico di interventi assistenziali. Ecco perché l’attuale maggioranza dovrebbe fare chiarezza sulle responsabilità dell’assassinio premeditato (“opificidio”) di una grande acciaieria produttiva e rispettosa delle regole ambientali, ma pregiudizialmente condannata allo sfascio. Almeno non varrà per Meloni la regola del nascondino: l’ultimo fa pace per tutti.

Poi – si sa – le disgrazie non vengono mai da sole. Dopo una polemica tra Meloni, Repubblica, Gedi e Stellantis, Carlo Tavares ha giocato l’asso di briscola: senza sussidi all’auto elettrica i presidi di Stellantis in Italia sono a rischio. Come ha risposto l’infaticabile ministro Urso? Ipotizzando un possibile ingresso dello Stato nel capitale per pareggiare la quota francese. Subito dopo sono intervenuti i sindacati e l’opposizione. Con riguardo agli incentivi all’auto promessi dal governo (950 milioni di euro per il programma Ecobonus 2024, cui si aggiunge un contributo per le rottamazioni), Maurizio Landini ha sottolineato che “gli incentivi di per sé non risolvono, c’è bisogno di una logica di intervento più forte. In Francia è presente anche lo Stato in aziende strategiche importanti. Torniamo a chiedere che anche lo Stato italiano entri. Non è una novità, lo chiediamo da tempo”.

 

Scende in campo anche Antonio Misiani il responsabile economico del “nuovo” Pd: “Credo che il punto significativo sia innanzi tutto un ingresso nel capitale sociale, che sarebbe peraltro un buon investimento, visto che Stellantis è una società che va molto bene’’. La logica è quella di entrare nella stanza dei bottoni della holding per orientarne le scelte. È una visione che non convince; innanzi tutto perché l’investimento costerebbe 4 miliardi, poi perché un grande gruppo non lottizza gli investimenti in base a chi sta nei CdA, ma alle convenienze di contesto fiscale, finanziario, sociale, economico ed occupazionale. Landini, querelando Carlo Calenda, ha affidato ad un giudice di stabilire se il sindacato abbia gestito nel migliore dei modi gli stabilimenti ex Fca in Italia. Ma anche in questo caso, l’ingresso dello Stato è figlio della medesima logica che tiene banco – sia pure in una situazione molto più logorata – all’ex Ilva. Viene il dubbio – anche considerando quanto sta accadendo in queste ore in agricoltura – che la politica industriale del governo sia ispirata ai motivi che diedero corso – tra le due guerre mondiali del secolo breve – alla costituzione dell’Iri. Abbiamo visto poi come è finita.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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