Bollettino ADAPT 28 gennaio 2019, n. 4
Ripulito nel testo, accompagnato da un’esauriente relazione tecnica (RT) sta per arrivare in Parlamento – si dice partendo dal Senato – il “decretone” identitario del governo e della maggioranza giallo-verde. Ciascuno dei due partner “porta l’acqua al suo mulino” anche in pubblico: Matteo Salvini cerca di prendere le distanze dal reddito di cittadinanza (RdC) che invece viene innalzato sugli altari da Luigi Di Maio. Eppure nella narrazione dell’esecutivo le due misure si “tengono insieme”, almeno nella logica di elementare buon senso attribuito alla solita casalinga di Voghera. Quota 100 e gli altri provvedimenti di contorno libereranno in un triennio più di 900mila posti di lavoro (questo sarà il maggior numero di pensioni – limitatamente alle diverse tipologie di anticipo – rispetto a quelle che vi sarebbero state con le regole previgenti), che saranno coperti con le risorse e le procedure del reddito di cittadinanza, rivolte a contrastare la povertà e a promuovere interventi formativi, di orientamento, di outplacement e avviamento al lavoro.
Ad avviso di chi scrive, il vero motivo ispiratore di questi due interventi nasce, paradossalmente, da una visione negativa del lavoro (“lavorare stanca”) secondo la quale a chi è occupato stabilmente occorre concedere la possibilità di “liberarsi” il prima possibile, mentre a chi è inoccupato o disoccupato lo Stato deve assicurare la possibilità di vivere – lui e la sua famiglia – anche senza lavorare, al riparo della “foglia di fico” dell’attesa di ben tre proposte di lavoro nell’arco di un certo periodo di tempo. Con i primi si vuole stabilire un dogma, che prescinda da ogni altra considerazione (demografica, economica, di finanza pubblica): i baby boomers che hanno lavorato per 41 anni o giù di lì, hanno “già dato”. Con i secondi si entra nella storia patria. Come ha scritto Marco Leonardi (nel libro “Le riforme dimezzate”): “il messaggio che viene mandato al Sud d’Italia è: per un secolo vi abbiamo promesso posti di lavoro e non ve li abbiamo dati, ora vi diamo direttamente il reddito così non dovete preoccuparvi”.
Come abbiamo premesso la RT è molto illuminante per quanto riguarda gli effetti delle due misure. Limitatamente alle modifiche relative al sistema pensionistico, nel triennio (2019-2021) (la c.d. sperimentazione di quota 100, la possibilità di pensione anticipata con i requisiti bloccati al 2018 e senza adeguamenti alla variazione della speranza di vita fino al 2026, le finestre di uscita e il cumulo contributivo) vi sarà una maggiore spesa cumulata di oltre 20 miliardi che saliranno ad oltre 22 miliardi includendo la proroga dell’opzione donna, dell’ape sociale, le norme sui riscatti e il tfr/tfs, la “liberazione” dei c.d. 41isti dal vincolo dell’adeguamento automatico all’attesa di vita. Queste risorse serviranno a coprire la spesa per un maggior numero – pari a circa milione – di trattamenti anticipati di anzianità nel triennio fatidico.
A voler quantificare questi stanziamenti in termini di Pil, la maggiore spesa è stimata in aumento di quasi 1,5 punti soltanto per questa tipologia di trattamenti. Scomputando i diversi settori di coloro che accedono a quota 100 si prevedono nel complesso: 343mila dipendenti privati, 302mila lavoratori autonomi e 328mila dipendenti pubblici. In un decennio, fino al 2028, la maggiore spesa prevista per tutte le misure ora individuate (quota 100 e le altre) è superiore a 48 miliardi ovvero ben tre punti di Pil. Certo l’incidenza della spesa pensionistica sul prodotto è frutto di una frazione di cui non conosciamo il denominatore (il Pil, appunto); ma c’è da temere che basteranno queste misure (poi non sappiamo che cosa succederà a partire dal 2022) per destabilizzare il sistema.
Ma servirà questo grumo di significative risorse – introdotto nell’apparato circolatorio della previdenza e quindi destinato a navigare per decenni e a gravare sui futuri contribuenti – ad entrare in sintonia con il reddito di cittadinanza e a produrre l’effetto di una minore disoccupazione? È molto improbabile. Se si volesse illustrare il RdC in una forma icastica basterebbe lo schizzo di un “frecciarossa” che traina una carriola: dopo pochi istanti il legame si spezza ed ognuno è destinato ad andare per la sua strada. Fuor di metafora, la vettura ferroviaria corrisponde all’erogazione dell’assegno. Per poterlo corrispondere ci vorrà quasi certamente più tempo di quello indicato dal decreto, ma l’Inps riuscirà a farlo prima delle elezioni europee. La carriola rappresenta l’insieme delle politiche attive, soprattutto nel Mezzogiorno dove vi è più necessità, ma le strutture sono nettamente inadeguate.
L’erogazione del rdc ha tempi diversi da quelli occorrenti per formare e dare lavoro ad un inoccupato. Nel decreto si affidano compiti a piattaforme informatiche ora inesistenti; si assumeranno, mediante forme e procedure acrobatiche al limite della legalità e in conflitto con le Regioni, migliaia di persone – i tutor ora ribattezzati navigator – la cui competenza è solo presunta. Per esercitare il ruolo del tutor occorre saperlo fare, riuscire a fornire orientamenti, conoscere il mercato del lavoro, non in astratto, ma nello specifico di un territorio. Come si fa a pretendere che tutto questo si realizzi in pochi mesi?
Sembra invece che vi sia un automatismo nell’offrire un’occasione di lavoro in rapida successione, anche laddove i posti non ci sono. Poi i soggetti a cui si riferisce il provvedimento hanno caratteristiche e profili diversi: il povero bisognoso di inclusione sociale, con handicap culturali e formativi (che ogni giorno dovrebbe consultare on line una banca dati ancora immaginaria), non è gestibile come il disoccupato, uscito temporaneamente dal mercato del lavoro. Quale imprenditore assumerebbe a tempo indeterminato il primo?
Vi è poi una sostanziale ignoranza sulla complessità delle politiche per l’impiego. Il decreto, negli strumenti individuati, non si pone minimamente il problema del mismatch tra domanda e offerta di lavoro che è la principale causa della disoccupazione giovanile ed uno degli aspetti più difficili da risolvere perché si proietta alle radici dei processi formativi, a partire dalla scuola. L’occupabilità della persona è non solo un requisito ma una precondizione di ogni politica di outplacement. Ed è velleitario pensare che un neolaureato in psicologia, assunto con un rapporto precario, sia in grado di recuperare gli svantaggi di un disoccupato di lungo periodo o di una persona che ha vissuto ai margini del mercato del lavoro o che non ha un’adeguata formazione di base.
La stessa logica vale quando si deve sostituire – avverrà soprattutto al Nord – un lavoratore anziano prepensionato. In questo caso, non sarebbe male tener conto delle dinamiche demografiche, porsi il problema se tali “sostituti” vi siano in numero adeguato oppure se quelli che escono siano più numerosi di quelli che possono o vogliono entrare. In sostanza, al di là della buona volontà, il populismo si fa sempre riconoscere come una forza capace soltanto di fornire soluzioni semplici a problemi complessi. Ma soluzioni effimere, scritte sull’acqua.
Membro del Comitato scientifico ADAPT