Politically (in)correct – Referendum Cgil ed altre stranezze

È in arrivo la decisione di ammissibilità, da parte della Consulta, sui tre referendum promossi dalla Cgil. Se sembra assodato che vi sarà via libera per due di essi (appalti e voucher), la massima attenzione è rivolta al quesito che, una volta ammesso e approvato, riporterebbe indietro nel tempo (e nella cultura giuridica) la normativa sul recesso, ripristinando la reintegra in caso di licenziamento (non solo disciplinare) ritenuto illegittimo, estendendo inoltre la tutela alle aziende con più di 5 dipendenti (rispetto agli attuali 15) e coinvolgendo così alcuni milioni di lavoratori, fino ad ora e da sempre, ‘’coperti’’ da una sanzione soltanto risarcitoria. La Corte, infatti, pone tre requisiti come indispensabili per l’ammissibilità dei quesiti: la chiarezza, univocità e omogeneità. La richiesta di referendum contiene più domande (tre) in un unico quesito. In parole povere, nello stesso quesito viene proposta l’abrogazione tout court del dlgs n.23/2015 (istitutivo per i nuovi assunti dal 7 marzo di quell’anno del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti) e viene sottoposto ad una riscrittura, col metodo del ‘’taglia e cuci’’, l’articolo 18 come ‘’novellato’’ dalla legge n. 92/2012 (la riforma Fornero, a valere per i ‘’vecchi’’ assunti). Come si vede i due quesiti si rivolgono persino a platee differenti. Ma l’effetto conclusivo quale sarebbe? Il ripristino dell’articolo 18 come lo volle il legislatore del 1970? Niente affatto. Da quel caotico processo abrogativo-emendativo scaturirebbe un nuovo articolo 18 sia nei contenuti che nel perimetro applicativo. Un elettore potrebbe essere d’accordo su una o due domande, ma, ad esempio, non sulla terza. Con un quesito unico che contiene una pluralità di domande si coarta la volontà dell’elettore nel senso che lo si induce non già a votare per l’abrogazione delle norme, ma a condividere forzatamente una nuova disciplina del licenziamento individuale.

 

Per quanto riguarda il quesito sui voucher negli ultimi giorni si è scoperto che il sindacato pensionati bolognese della Cgil fa uso di questa modalità per retribuire gli attivisti (una cinquantina) che assicurano una permanenza nelle sedi territoriali. Ovviamente il caso, venuto alla luce tramite uno scoop giornalistico, non è un’eccezione. L’esperienza dei voucher certamente è più diffusa. Al di là dell’evidente contraddizione tra il dire e il fare, è significativa la linea di difesa dei dirigenti di quel sindacato che ribadiscono il loro impegno nel referendum, ma riconoscono nello stesso tempo che non c’è un modo più pratico (e legale) per retribuire quelle prestazioni. Forse dovrebbero spiegare come intendono risolvere il problema nel caso in cui la consultazione dovesse dare un esito positivo e i voucher venissero aboliti. E perché non si siano avvalsi di altre modalità di pagamento già adesso vigenti.

 

Si è parlato molto poco del quesito sugli appalti. La Cgil lo spiega così: “l’abrogazione delle norme che limitano la responsabilità solidale degli appalti vuole difendere i diritti dei lavoratori occupati negli appalti e sub appalti coinvolti in processi di esternalizzazione, assicurando loro tutela dell’occupazione nei casi di cambi d’appalto e contrastando le pratiche di concorrenza sleale assunte da imprese non rispettose del dettato formativo. L’obiettivo è rendere il regime di responsabilità solidale omogeneo, applicabile in favore di tutti i lavoratori a prescindere dal loro rapporto con il datore di lavoro. Ripristiniamo la responsabilità in solido tra appaltante e appaltatore, garantiamo la stessa dignità a tutti i soggetti che, direttamente o indirettamente, contribuiscono alla crescita aziendale’’. In verità non mancano aspetti veramente singolari che evocano una celebre battuta di Groucho Marx (ripresa da Woody Allen): “Non mi iscriverei mai ad un club che ammettesse tra i suoi soci persone come me”. A leggere il quesito verrebbe da chiedersi perché un sindacato chiede l’abrogazione di una norma che gli affida un ruolo contrattuale in materia che è libero di esercitare (o no). Leggiamo insieme uno dei brani da abrogare nell’articolo 29 del dlgs n. 276/2003 comma 2: “Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative del settore che possono individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti”.

 

Ma le stranezze non riguardano soltanto l’eventuale referendum. Nei giorni scorsi, per esempio, è scoppiato il caso di una sentenza della Suprema Corte di Cassazione (n.25201 del 7 dicembre scorso) che si è permessa di definire legittimo il licenziamento di un lavoratore motivato con l’intento di realizzare “una organizzazione più conveniente per un incremento del profitto”. Non avesse osato farlo. Il profitto, in Italia, è lo “sterco del diavolo”. La possibilità di licenziare, come prevede la legge, per “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, può valere soltanto – sostengano infuriate le “anime belle”- se l’azienda è in crisi. Ma il profitto non è il fine di quell’attività economica organizzata che si chiama impresa?

 

La sentenza della Suprema Corte non fa una grinza; e non ha nulla da spartire con le modifiche introdotte nella disciplina del recesso dal rapporto di lavoro sia dalla legge n.92/2012 (la riforma Fornero del mercato del lavoro), sia dal dlgs n.23/2015 che ha introdotto il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Diciamo di più. Se anche l’11 gennaio prossimo i giudici delle leggi dichiarassero l’ammissibilità del quesito referendario sull’articolo 18 e l’elettorato si pronunciasse in modo favorevole all’abrogazione delle recenti innovazioni legislative, la sentenza non sarebbe affatto fuori luogo, perché conforme non solo alla giurisprudenza consolidata, ma anche alla migliore dottrina. Ma le stranezze non finiscono qui.

 

Se andiamo un po’ più indietro nel tempo è scoppiato lo scandalo dell’incremento dei licenziamenti disciplinari, di cui si sono subito incolpati il jobs act e la nuova disciplina del recesso. La vera spiegazione è un’altra. I licenziamenti per giustificato motivo e per giusta causa sono aumentati per colpa di una norma cretina sulle c.d. dimissioni in bianco. Sia chiaro: quella di far firmare ai lavoratori (e in particolare alle lavoratrici) una lettera che il datore potrà usare, a suo discrezione, come atto di dimissioni (evitando così le procedure del recesso) è una prassi disonesta, infame e meritevole di essere contrastata in ogni modo. Con buon senso, però; come aveva provveduto a fare la legge n.92/2012 (la riforma Fornero del mercato del lavoro). Perché avessero effetto le dimissioni dovevano essere date in una sede ‘’protetta’’ (sindacale, amministrativa, giudiziaria), con modalità trasparenti e come espressione della libera volontà del lavoratore. In caso contrario (ovvero in mancanza degli adempimenti previsti) il rapporto di lavoro continuava a sussistere. Veniva, tuttavia, tutelato anche il datore di lavoro per i casi nei quali il dipendente (capitava con molti stranieri) non seguisse le procedure stabilite o non si presentasse più in azienda. Il datore poteva “metterlo in mora” invitandolo a rientrare al lavoro entro un certo periodo, trascorso inutilmente il quale il rapporto si intendeva risolto ex tunc.

 

In questa legislatura le Erinni del Parlamento, come se non esistesse già una normativa vigente, hanno preteso di ripristinare una disciplina, abrogata, a suo tempo, del Ministro Maurizio Sacconi, perché si era rivelata funesta. Per dare le dimissioni il lavoratore doveva scaricare e compilare un apposito modulo dal sito del Dicastero del Lavoro. Senza neppure prendersi la briga di monitorare gli effetti delle norme della legge n.92, si è voluto tornare a quella impostazione. Ma se uno non segue la procedura informatica che cosa succede? Che il rapporto non si scioglie e che il datore deve licenziare il soggetto per assenza continuativa ed ingiustificata. In sostanza, è costretto ad avvalersi del potere disciplinare, con tutti i rischi che comporta un licenziamento (l’impugnazione, l’esame del giudice, il risarcimento) oltre al pagamento della “tassa” prevista. Il lavoratore, inoltre, potrebbe fruire, a fronte dei requisiti richiesti, della Naspi.

 

Per concludere, nei giorni scorsi il Governo del conte Paolo Gentiloni Silveri si è vantato di aver mantenuto in servizio i precari pubblici. Che cosa è successo davvero ? Un decreto applicativo del jobs act aveva vietato alla pubblica amministrazione di ricorrere, a partire dal 2017, ai contratti di collaborazione. Perciò i rapporti in scadenza alla fine del 2016 non potevano essere rinnovati. Così la norma fatidica è finita in freezer. Con tanto di grancassa al seguito.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

 

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