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Poniamoci una domanda: perché è tanto difficile arrivare ad un’intesa sulle relazioni industriali? D’acchito a me viene la tentazione di rispondere in modo paradossale. Da almeno una decina di anni Confindustria e Cgil, Cisl e Uil si siedono ad un tavolo di trattative per ridefinire le regole della contrattazione collettiva e della rappresentanza per un solo motivo: riportare all’interno del sistema la Cgil. Ma questo obiettivo, al pari di una matrioska, ne conteneva un altro che condizionava il primo: “normalizzare” la categoria dei metalmeccanici che non trovava più la quadra per stipulare un contratto unitario.
Per fare questo però – siamo sempre a scoperchiare la matrioska – era indispensabile riportare sui corretti binari la Fiom, la cui indisponibilità (un vero e proprio Aventino) era diventata la causa della disaffezione per qualsiasi negoziato concludente della stessa Cgil. In sostanza, anche quando la Cgil, nel 2011, aveva acconsentito a sottoscrivere un accordo, questo è rimasto praticamente sulla carta perché la Fiom aveva storto il naso. Poi è venuta la svolta – improvvisa ed inattesa soprattutto nei contenuti – del contratto unitario Fim-Fiom-Uilm del novembre 2016. “È fatta – mi sono detto – i metalmeccanici sono tornati a dare la linea; l’intendenza seguirà”.
Invece non è stato così. Anzi, a valutare le posizioni in campo si ha l’impressione che le parti siano alla ricerca di una “terza via” e che l’impostazione dei metalmeccanici costituisca un caso non smentito, ma tollerato. Soprattutto non viene preso da esempio dalle altre categorie (come è sempre avvenuto nella storia sindacale del dopoguerra) e dalle stesse confederazioni. Si direbbe, invece, che tocchi alla Cgil trovare una linea di compromesso che – a questo punto – sia condivisa anche dalle altre categorie, restie a seguire l’esempio dei metalmeccanici.
Sicuramente la situazione è più complessa della “quadriglia” che abbiamo fin qui descritto, ma i problemi sono più o meno sempre gli stessi: quale equilibrio trovare – anche sul piano della allocazione delle risorse – tra i diversi livelli di contrattazione. Il fatto è che il negoziato interconfederale ha seguito percorsi e scadenziari estranei rispetto agli appuntamenti delle più importanti categorie con il loro rinnovi contrattuali. Così, ammesso e non concesso che la Confindustria e le confederazioni sindacali “osino” sottoscrivere un’intesa prima delle elezioni (con la preoccupazione di portare acqua – pro o contro qualcuno – nel contesto della competizione politica) essa arriverebbe comunque in tempo per spegnere le luci di una stagione contrattuale che già è alle spalle.
Non è la prima volta che le istanze confederali entrano in scena nell’ultimo atto sebbene il copione della commedia li vorrebbe veder recitare la loro parte nel primo. Un conto sarebbe stato orientare le trattative prima del loro inizio, un altro arrivare a cose fatte. La vexata quaestio del ruolo del contratto nazionale – in uno scenario che ha visto ampliare di parecchio l’intervento della legge nella regolazione del rapporto di lavoro – è ormai limitata alla salvaguardia del potere d’acquisto delle retribuzioni in relazione all’andamento del costo della vita in una fase il cui l’inflazione è tenuta in vita con la respirazione artificiale.
Fornire ora una formulazione di carattere generale diventerebbe una sorta di arbitraggio tra la soluzione trovata nel contratto dei chimici e quella prevista nell’accordo dei metalmeccanici. Non solo ciò non avrebbe senso pratico; ma è dubbio che le confederazioni possano disporre dell’autorevolezza necessaria per mediare all’interno di una batracomiomachia priva di importanza, perché le soluzioni trovate dalle due categorie hanno ricevuto entrambe il consenso dei lavoratori interessati.
Dopo le elezioni lo scenario potrebbe essere diverso: nei programmi elettorali delle forze più responsabili si parla di salario minimo legale e di legge sulla rappresentanza, allo scopo di fronteggiare una frantumazione della stessa rappresentanza che si è riversata gravemente sugli assetti della contrattazione collettiva dove sono sempre più ricorrenti e minacciosi, da un lato, la “pirateria” al ribasso delle regole; dall’altro, il diffondersi, anche nei settori un tempo “vaccinati”, della pestilenza del sindacalismo radicale di base. Ma per ridisegnare un modello di relazioni industriali stabile e solido, il potere politico dovrebbe, per primo, garantire a se stesso queste condizioni preliminari. I dubbi sono comprensibili. Ed inquietanti.
Membro del Comitato scientifico ADAPT