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Prepariamoci – in occasione della ricorrenza di ciascun evento – ad assistere alla celebrazione del magico “sessantotto”, cinquant’anni dopo. I maitres à pénser tuttora in servizio permanente effettivo – ancorché invecchiati non sempre bene – si sono formati in quella esperienza, della quale difendono ogni aspetto…. magari soltanto allo scopo di autoassolversi (si vedano le testimonianze contenute nel primo numero dell’anno in corso della rivista Formiche). Peraltro, tra le sue principali caratteristiche il ’68 fu quella di anticipare la globalizzazione, giacché le sue istanze attraversarono gli oceani e coinvolsero i diversi continenti e regimi, con l’immaterialità di un virus che non può essere fermato dal filo spinato e dal cemento dei confini.
“Fu vera gloria”? É presto per pronunciare “l’ardua sentenza”: dal “sessantotto” è trascorso mezzo secolo; ma il “sessantottismo” è tuttora vivo, vegeto ed egemone. Sono i padri, persino i nonni, a coltivarne la memoria con i figli e i nipoti dei quali apprezzano le gesta quando – senza neppure conoscere il perché – comunicano in famiglia che dormiranno – quella notte – nella scuola occupata, contro la riforma del ministro di turno che pretende di togliere risorse all’istruzione pubblica a favore di quella privata. Se non lo facessero, i nonni e i padri sarebbero i primi ad esserne delusi.
A questo proposito mi piace raccontare un’esperienza che ritengo emblematica. Erano i primi anni ’60, frequentavo l’Università ed ero iscritto alla sezione bolognese dell’UGI (Unione goliardica italiana) che era l’associazione degli studenti di sinistra all’interno degli organismi rappresentativi (che poi furono spazzati via dalla contestazione studentesca e dal regime dell’assemblearismo). Il governo di allora aveva varato un piano di riforma dell’Università che portava il nome del ministro democristiano Luigi Gui. Nelle riunioni serali dell’associazione tutti si sperticavano a dire peste e corna di quel piano. Decisi pertanto di leggerlo e non vi trovai nulla di particolarmente minaccioso. Ma mi guardavo bene dall’esternare i miei dubbi. Finché una sera, mentre ascoltavo l’ennesimo intervento contrario, mi decisi a rivolgere al mio vicino la seguente domanda: “Scusa, mi sai spiegare perché ce l’abbiamo tanto col piano Gui?”. Lo studente interpellato mi guardò con un mix di smarrimento e di disappunto come se, tra sé e sé, pensasse: “Che cosa vuoi da me? Io a te non ho fatto nulla di male”. Poi prese coraggio e mi rispose: “Il piano Gui si propone l’efficienza dell’Università, ma non l’Università efficiente’’. Da quel momento – ricordando la risposta del mio interlocutore – mi sono guardato bene dal chiedere in tutti questi anni ad un qualsiasi studente per quali motivi scioperasse od occupasse il proprio liceo o l’Università.
Ma smettiamo di divagare. In Italia è ancora consolidata la convinzione che il nostro “sessantotto” si sia svolto l’anno dopo, con l’autunno caldo e la grande vertenza dei metalmeccanici. Ricordo persino che nei primi anni ’70 era frequente una considerazione non priva di una buona dose di prosopopea: “Se in Francia è durata un mese, da noi il calendario della contestazione è stato molto più a lungo”. In sostanza, a parte la “Primavera di Praga” – che iniziò con l’elezione di Alexander Dubcek a segretario del PCC il 5 gennaio e fu travolta il 21 agosto dall’invasione delle truppe del Patto di Varsavia – è pensiero comune che il 1968 abbia avuto come protagonisti gli studenti; il 1969 gli operai.
Ma le cose non andarono proprio così, perché nell’anno che precedette la riscossa dei lavoratori vi furono eventi importanti e significativi anche per quanto riguardava – latu sensu – il lavoro. Addirittura l’anno finì con l’eccidio di Avola, in provincia di Siracusa: due braccianti furono uccisi dalle forze dell’ordine (a mia memoria fu l’ultimo caso in un conflitto di lavoro) e molti altri feriti (una cinquantina) durante una manifestazione sindacale. Il 21 dicembre 1968, l’Intersind, l’organizzazione che rappresentava nelle trattative sindacali le aziende dei gruppi statali IRI e Efim, accettava l’eliminazione graduale delle c.d. gabbie entro il 1971, anticipando ciò che sarebbe avvenuto anche nel settore privato l’anno successivo. Ma l’evento più importante per quanto riguarda le relazioni industriali fu l’accordo del 31 maggio alla Fiat sul sistema di cottimo, un tema fino ad allora gelosamente custodito dalle aziende. L’accordo portò, peraltro, in busta paga un aumento di 20 lire orarie che allora sembravano tante.
Nel corso del 1968 venne, poi, un segnale inequivocabile dell’amore degli italiani per le pensioni. È una storia che mi è capitato di raccontare altre volte in diverse sedi, ma che merita un sintetico ripasso perché spiega tante cose che si sono verificate negli ultimi venticinque anni, in occasione delle riforme del sistema previdenziale e che sono tuttora sotto i nostri occhi (e disturbano le nostre orecchie) durante la sgangherata campagna elettorale a cui stiamo assistendo, sbigottiti. Fu nel 1968 che il governo di allora, rendendosi conto degli effetti dirompenti che si sarebbero determinati in futuro, cercò di abolire l’istituto del pensionamento di anzianità (35 anni di contribuzione a prescindere dall’età anagrafica), introdotto incautamente nel settore privato, in parallelo con quanto era vigente in quelli pubblici (20 anni per gli statali e 25 per i dipendenti degli enti locali). La norma era contenuta nella legge n.903 a valere per l’Ago. Era stato altresì abolito anche ogni divieto di cumulo, tanto che i pensionati di anzianità avrebbero potuto accedere alla prestazione senza neppure interrompere (sic!) il rapporto di lavoro. Ben presto, infatti, ci si era resi conto che, alla luce di siffatta normativa, nei decenni a venire milioni di italiani (entrati giovanissimi nel mercato del lavoro) sarebbero stati in grado di percepire la pensione intorno ai 50 anni di età. Nell’ambito di un negoziato in materia di pensioni, il governo si dichiarò disponibile ad accogliere la richiesta avanzata dai sindacati a proposito del c.d. aggancio alle retribuzioni degli ultimi anni di lavoro (allo scopo di garantire al pensionato un reddito “in continuità” con quello acquisito) a condizione che fosse abolito il pensionamento di anzianità. Per dare attuazione a quell’intesa, nel d.lgs. n. 488 fu disposta la formula retributiva (65% della retribuzione dell’ultimo triennio), venne abolita la pensione di anzianità (salvo un trattamento transitorio fino al 1970 nel caso di disoccupazione involontaria, con liquidazione secondo la precedente formula contributiva), fu fissato un rigoroso divieto di cumulo.
Ma prima di arrivare a questa assunzione di responsabilità da parte del governo, era successo il finimondo. A conclusione del confronto preliminare con le parti sociali, alla delegazione sindacale la proposta del governo era sembrata ragionevole (in sostanza trattandosi di introdurre il c.d. metodo retributivo al posto di quello contributivo allora vigente e basato sulle ‘’marchette’’, si era ritenuta “sacrificabile” la pensione di anzianità): del resto, l’età stabilita per il trattamento di vecchiaia, nei settori privati, era pari a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne e quindi socialmente sostenibile. Ma quando Luciano Lama, allora componente della segreteria della Cgil e capo delegazione nel negoziato, riferì dell’intesa raggiunta, sorsero dei dispareri proprio sulla questione del pensionamento anticipato, anche perché, nelle grandi fabbriche del Nord, cominciarono a verificarsi degli scioperi spontanei. I lavoratori, pur appartenendo a generazioni ancora lontane dall’orizzonte della quiescenza, si resero subito conto di quale “cuccagna” venivano privati. Certo, le ragioni di malcontento erano anche altre (per esempio la magra stagione dei rinnovi contrattuali degli anni precedenti); ma la protesta fu innescata dalle pensioni. La Cgil, allora, sconfessò Lama, ritirò l’adesione all’accordo di massima e proclamò per il 7 marzo lo sciopero generale che ebbe una massiccia partecipazione tra tutti i lavoratori e che vide persino l’adesione di strutture sindacali di Cisl e Uil le quali erano rimaste fedeli, a livello nazionale, all’impegno sottoscritto.
Qualcuno sostiene pure oggi che quella vicenda fu il principale motivo del fallimento dell’unificazione socialista nelle elezioni politiche del 18 giugno di quell’anno. ll PCI passò dal 25,3% al 29,9%, e il PSIUP che lo fiancheggiava, ma, al tempo stesso, lo incalzava e lo criticava da sinistra, arrivò al 4,4%; PSI e PSDI uniti persero quasi un quarto dei voti che avevano avuto presentandosi separatamente, mentre la DC restava statica. Si affermò allora la convinzione dell’intangibilità delle pensioni di anzianità, sulle quali venne affisso il cartello “chi tocca i fili muore”.
Si dovettero aspettare circa una ventina di anni (con le riforme Dini e Prodi) per introdurre a fianco dei canonici 35 anni, pure un requisito anagrafico. Come abbiamo anticipato, nonostante le tante riforme avvenute, la lingua batte ancora oggi laddove il dente duole. I giovani che scioperarono nel 1968, sono quelli che adesso presentano il conto e pretendono di incassare: sotto le spoglie dei “precoci”, dei quarantunisti disagiati, degli esodati o di quant’altro. Ma è comunque opportuna un’annotazione: mentre, cinquant’anni or sono, i giovani di mezzo mondo pensavano alla rivoluzione planetaria, i nostri si preoccupavano già della loro pensione. Di come e di quando l’avrebbero percepita.
Membro del Comitato scientifico ADAPT