Bollettino ADAPT 14 settembre 2020, n. 33
Può essere che mi sia sfuggita qualche rievocazione importante. È possibile che il virus abbia determinato amnesie nella memoria collettiva di una nazione, in particolare nel popolo disorientato e confuso della sinistra (sarebbe bene cominciare ad usare il plurale come si fa con le destre). Il fatto però è evidente: nel settembre di cento anni fa (il 1920) aveva luogo l’episodio culminante del ‘’biennio rosso’’: l’occupazione delle fabbriche. Nell’introduzione del saggio ‘’L’occupazione delle fabbriche’’ (Einaudi) dedicato a quell’evento Paolo Spriano – lo storico ufficioso del Pci – scrive: ‘’Enorme fu l’emozione che esso produsse in tutto il Paese e non solo allora (Antonio Gramsci, in una nota dal carcere, si riferì all’episodio parlando della ‘’grande paura’’, ndr): chè, dopo decenni, l’occupazione delle fabbriche è ancora un richiamo obbligato nella vita sociale e politica italiana’’. Spriano esprimeva quest’auspicio nell’aprile del 1964. Da allora è trascorso un lasso di tempo molto lungo, ma non abbastanza per stendere, come è accaduto, un velo di oblio su di un pezzo di storia del movimento operaio.
Il ‘’biennio rosso’’
Gli anni 1919-1920 furono definiti ‘’il biennio rosso’’, quando si accesero le speranze di ‘’fare come la Russia’’, dove erano in corso la rivoluzione dei soviet e la guerra civile. La Grande Guerra era finita da poco e aveva prodotto, oltre alla ‘’inutile strage’’, enormi sommovimenti politici e sociali. Nel febbraio del 1919 gli operai metallurgici avevano conquistate le ‘’otto ore’’, mentre sul piano politico, nelle elezioni generali, il Psi (forte di 200mila iscritti) aveva eletto 156 deputati alla Camera (affermandosi come il partito di maggioranza relativa). La Confederazione del Lavoro (Cgl) contava poco meno di due milioni di iscritti, di cui più della metà erano operai dell’industria (solo per ricordare le federazioni più importanti: 200mila edili, 160mila metallurgici, 155mila tessili, 60mila statali, 50mila impiegati privati e quant’altro). Sarebbe come sparare sulla Croce rossa, far notare che nelle confederazioni di oggi, la metà degli iscritti sono pensionati. Ma la Confederazione ‘’rossa’’ non era l’unico sindacato esistente e attivo. L’Usi – di ispirazione anarco-sindacalista – contava 300mila iscritti, mentre il ‘’sindacato bianco’’, la Confederazione italiana del lavoro (Cil), era forte soprattutto nelle campagne dove aveva l’80% dei 1,8milioni di iscritti complessivi: uno dei suoi principali leader Guido Miglioli era definito il ‘’bolsevico bianco’’. Vi erano poi formazioni repubblicane in Romagna; il sindacato ferrovieri, autonomo dalla Cgl, con 200mila iscritti. Oltre ai tessili dove era forte la presenza di lavoratrici, il sindacato più importante era sicuramente la Fiom, diretta da Bruno Buozzi. La forza di questo sindacato, scrive Spriano, stava nel fatto che ‘’le sue direttive venivano accolte ed osservate dalla grande maggioranza delle maestranze’’. La federazione, attiva già nei primi anni del XX secolo, si ‘’era fatta le ossa’’ durante la guerra, aumentando il suo potere contrattuale. Buozzi e i principali dirigenti, anche a livello periferico, erano socialisti riformisti (come del resto quelli della confederazione). Secondo l’autore, queste persone avevano una ‘’concezione di grande rigidità che fa[ceva] della organizzazione centralizzata, della disciplina all’autorità del sindacato e al suo potere contrattuale una sorta di feticcio’’. Nella loro esperienza questi sindacalisti avevano visto e combattuto i guasti provocati del sindacalismo rivoluzionario nelle lotte di una decina di anni prima e avevano incanalato il movimento lungo un percorso strettamente attinente al negoziato delle retribuzioni e delle condizioni di lavoro. Secondo Spriano – nelle sue parole si avverte un giudizio politico critico – quel gruppo dirigente non vedeva con favore la nascita di strutture consiliari a cui venivano contrapposte le commissioni interne (istituite dall’accordo Itala-Fiom del 1906); su questo tema vi era in disaccordo con i torinesi di ‘’Ordine nuovo’’ (Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Angelo Tasca e altri) per i quali ‘’il consiglio di fabbrica’’ era ‘’il modello dello Stato proletario’’. Sul piano politico i leader sindacali non condividevano la linea della maggioranza massimalista del Psi (che guardava all’esperienza sovietica e si poneva come obiettivi l’istituzione della Repubblica socialista, la dittatura del proletariato e la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio’’). Da socialisti riformisti aspiravano ‘’ad una collocazione diversa delle masse operaie e delle loro legittime rappresentanze nel quadro dello Stato democratico’’ nonché ‘’ad una organizzazione produttiva che rispecchi il peso accresciuto di queste masse nell’economia del Paese’’. La conflittualità era molto elevata. Oltre al problema dei salari, del c.d. carovita (ci furono dei saccheggi nei negozi e nei mercati come reazione all’aumento dei prezzi), erano in corso processi di riconversione industriale post-bellica che provocavano un crescente livello di disoccupazione (in assenza di qualsiasi forma di tutela del reddito). In tutto il 1919 (ricorda Massimo L. Salvadori nella sua ‘’Storia d’Italia’’) si ebbero 1663 scioperi nell’industria e 208 nell’agricoltura con una perdita complessiva di 22 milioni di giornate di lavoro. In agricoltura dopo una durissima lotta dei braccianti durata per mesi, i sindacati avevano ottenuto, con grande disappunto degli agrari, il c.d. imponibile di manodopera che costringeva i padroni a negoziare gli organici. Nel 1920 il numero degli scioperi superò i 2mila.
L’occupazione delle fabbriche
Scrive Salvadori che a metà agosto del 1920 ‘’maturò una situazione destinata a procurare un confronto durissimo fra il movimento operaio, gli industriali e la classe dirigente. Lo scontro – continua lo storico affrontando il nodo cruciale di quella fase – mise a nudo ‘’tutto il velleitarismo e l’inconsistenza del massimalismo del Partito socialista’’, il quale, mentre propagandava tra le masse una vaga prospettiva rivoluzionaria, non avendo la capacità di prenderne la direzione, ‘’faceva al tempo stesso montare nella borghesia una volontà controrivoluzionaria e inclinazioni autoritarie’’. La situazione precipitò quando, rotte le trattative contrattuali, la Fiom proclamò lo sciopero bianco ovvero una sorta di boicottaggio della produzione a cui gli industriali risposero, man mano, con la serrata. Si aprì una sorta di processo di botta e risposta tra serrata e occupazione delle fabbriche, fino a quando la Fiom impartì una indicazione di carattere generale in tal senso. Così l’occupazione, iniziata all’Alfa Romeo a Milano, si estese a tutto il triangolo industriale – e non solo tra i metalmeccanici – arrivando a coinvolgere 500mila lavoratori. Gli operai si misero a gestire in proprio la produzione e approntarono una forma di difesa militare armata delle fabbriche, affidata alle c.d. Guardie rosse. Il loro inno di battaglia iniziava così: ‘’All’appello di Mosca, plotoni roventi, sotto il rosso vessillo dei soviet di Lenin…’’. Il Partito socialista si trovò a dover gestire una situazione che in pochi giorni si era aggravata e poteva sfuggire di mano da un momento all’altro. I più radicali tra i massimalisti vedevano in quel movimento, che si era diffuso inaspettatamente e in breve, l’anticipo di un processo rivoluzionario, mentre i riformisti, con i sindacalisti in prima fila, sostenevano che era necessario riportare e mantenere gli obiettivi della lotta su di un piano sindacale. La riunione decisiva si svolse la sera del 10 settembre (praticamente un secolo fa) e vi parteciparono le Direzioni del Partito e della CGIL. Nel suo saggio Spriano cita un brano dell’intervento di Ludovico D’Aragona, il segretario generale della Confederazione: ‘’Voi credete (rivolgendosi ai massimalisti, ndr) che questo sia il momento di far nascere un atto rivoluzionario, ebbene assumetevi la responsabilità. Noi che non ci sentiamo di assumere questa responsabilità di gettare il proletariato al suicidio vi diciamo che ci ritiriamo e che diamo le dimissioni …. prendete voi la direzione del movimento’’. A questo punto, afferma Spriano, ‘’tutti i membri della Direzione sono d’accordo nel ritenere che senza gli uomini della Cgl alla testa delle masse’’ il ‘’grande salto’’ non si poteva fare. Così, l’ordine del giorno, presentato da D’Aragona, prevalse nella votazione finale. Spriano commenta questo esito in modo drammaticamente ironico: ‘’La rivoluzione è respinta a maggioranza’’. Un altro protagonista di quella fase fu il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, il quale adottò una linea attendista rifiutando – benché sollecitato – di impiegare la forza pubblica a sostegno degli industriali. Anzi, impartì, come ministro degli Affari interni, ordini precisi e rigorosi di moderazione ‘’anche di fronte all’impiego di armi da parte della folla’’. Paolo Spriano, in proposito, cita il testo di un telegramma inviato da Giolitti l’11 settembre al Prefetto di Milano, nel quale lo invitava a persuadere gli industriali che ‘’nessuno governo in Italia farà uso della forza, provocando certamente una rivoluzione, per far risparmiare loro qualche somma’’. E aggiungeva: ‘’Uso della forza significherebbe almeno la rovina delle fabbriche’’. Si racconta che al sen. Giovanni Agnelli il quale premeva perchè ‘’l’uomo di Dronero’’ facesse intervenire l’esercito per sgombrare le fabbriche, il presidente rispondesse: ‘’Bene. Comincerò a prendere a cannonate la Fiat’’. Quando maturò il momento della mediazione Giolitti convocò le parti a Roma, il 19 settembre. Dopo sei ore di discussione fu raggiunta un’intesa molto favorevole per la Fiom: 4 lire di aumento al giorno, minimi di paga, caroviveri, maggiorazioni per il lavoro straordinario, sei giorni di ferie annuali, indennità di licenziamento. Per convincere gli industriali a cedere, Giolitti minacciò di emanare un decreto per istituire il ‘’controllo sindacale’’ delle aziende. L’accordo sottoscritto fu sottoposto e approvato in un referendum dai lavoratori.
Il biennio nero
‘’Dopo l’occupazione delle fabbriche, le masse sindacali sentivano confusamente di essere state sconfitte –Spriano cita così un commento del tempo – ma non vedevano chiaramente né come né da chi’’. Salvadori sottolinea che l’occupazione delle fabbriche ebbe un triplice effetto: diede un colpo gravissimo alla linea politica di Giolitti che si era procurato l’ostilità degli industriali; rappresentò una inesorabile dèbacle del Partito socialista; inasprì ulteriormente i conflitti politici e sociali all’interno del Paese. Tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921, il fascismo si sviluppò e prese rapidamente quota. si intensificarono le violenze, gli assalti alle CdL, alle cooperative, alle sedi e ai giornali socialisti (la sede dell’Avanti! venne devastata più volte). Cominciarono a nascere nuovi sindacati fascisti che imponevano con la forza i loro contratti favorevoli ai padroni. Gli iscritti al Fascio – citiamo sempre Salvadori – passarono dai 20mila della fine del 1920 a 200mila a metà dell’anno dopo. Filippo Turati aveva predetto che il rivoluzionarismo inconcludente avrebbe avuto come unico effetto di scatenare la violenza degli avversari. Pietro Nenni trovò, in un breve saggio, una definizione – ‘’Il diciannovismo’’ – per quel complesso di vicende politiche che avrebbero portato in breve tempo alla sconfitta della classe lavoratrice e al fascismo. In quel saggio, il grande leader socialista, con riferimento alla linea di condotta della sinistra, ricordava una frase di Saint-Just: ‘’Chi fa la rivoluzione a metà, si scava la fossa’’. In Italia, la rivoluzione era stata persino messa ai voti.
Membro del Comitato scientifico ADAPT
*pubblicato anche su Il Riformista, 12 settembre 2020