Bollettino ADAPT 6 settembre 2021, n. 30
Al Meeting di Cernobbio ha soffiato un vento di euforia sulle “magnifiche sorti e progressive” dell’economia italiana. È vero – come fanno notare gli osservatori più prudenti – che si tratta di un rimbalzo; ma è altrettanto vero che quello italiano è il più alto del tasso di ripresa di altri Paesi sviluppati. Si prevede un +6% del Pil nel 2021 seguito da un + 4,7% nel 2022. Il trend viene confermato al Forum Ambrosetti dal ministro dell’Economia Daniele Franco, il quale ha sottolineato che “i dati sono incoraggianti”, e che chiuderemo “con un deficit e un debito un po’ migliori di quanto indicato nel Def”. Inoltre il debito “l’anno prossimo scenderà ulteriormente e verso la fine del decennio convergerà verso i livelli pre-pandemici”. Ma non basta. “È importante – ha aggiunto parlando Franco – che la crescita sia rapida”, ma “la sfida più importante è crescere in modo strutturalmente più elevato che in passato”.
In quelle stesse ore in un’intervista a Il Foglio Laura Dalla Vecchia, presidente della Confindustria vicentina (nel cuore della locomotiva veneta) con 1,6mila aziende associate, 85mila dipendenti, import export con i principali mercati europei, non misura certo le parole: “In questa fase stiamo assistendo ad una crescita imponente. In termini occupazionali siamo tornati all’epoca pre covid, anzi rispetto al 2019, Cottarelli conferma che l’Italia riuscirà a raggiungere, nel primo trimestre del 2022, lo stesso livello di Pil che aveva nel quarto trimestre 2019, l’ultimo pre Covid”. Ma aggiunge un caveat pesante come un iceberg: sempre che la situazione sanitaria non conduca ad un’altra fase di chiusure. Su questo terreno gli fa da eco il ministro Speranza: “Il virus esiste ancora, è forte e circola – spiega – O rafforziamo ancora la campagna vaccinale, o siamo costretti a immaginare che a un certo punto bisognerà usare le misure del passato”. E su questa ipotesi vuole precisare: “In pandemia la coperta rischia di essere corta, o la tiriamo con forza dalla parte dei vaccini o dovremo immaginare nuove chiusure”.
Poi vi sono altri problemi a rannuvolare l’orizzonte: la mancanza di forniture di input, le carenze nei servizi e nei trasporti, il risveglio di una inflazione da consumi e da costi che potrebbe indurre ad una maggiore prudenza nell’utilizzo delle finanze pubbliche senza far troppo caso al livello del deficit spending che ormai viene considerato l’approccio normale delle politiche di bilancio. Poi c’è il problema della manodopera che invece di essere in eccesso e determinare piani di licenziamenti senza pietà, sembra risultare introvabile, almeno relativamente alle esigenze delle imprese. Chi scrive è rimasto colpito dalla rappresentazione della realtà ad opera di un altro operatore veneto, Alessandro Riello, appartenente ad una dinastia che ha scritto la storia dell’industria italiana. In una intervista rilasciata a Nunzia Penelope su Il Diario del Lavoro, Riello ha voluto spiegare quali sono i reali problemi che un’impresa incontra per stare sul mercato: “Guardi, manca tutto. Mancano perfino carta e cartone. Abbiamo dovuto abbassare la produzione del 40% perché non si trova il cartone per l’imballaggio del prodotto. Abbiamo due linee di produzione che vanno solo al 50% perché non arrivano i ventilatori dalla Germania. Ho ventimila motori fermi – continua l’imprenditore – perché mancano i condensatori che devono arrivare dalla Cina. Non troviamo le schede elettroniche necessarie per completare alcuni prodotti, per cui ne usiamo una come ‘muletto’ per provare se un pezzo funziona, poi la smontiamo, la rimontiamo su un altro pezzo, e così via, sperando che arrivi un carico di schede che ci consenta di completare la produzione. Questo ci causa una perdita di efficienza mostruosa”. “E non è finita: non riusciamo a spedire le merci – aggiunge Riello – perché non ci sono navi. Una grossa parte della flotta mondiale è ferma perché si tratta di navi che bruciano carburanti molto inquinanti – e non più a termini di legge – per la maggior parte degli scali portuali. Non parlo nemmeno dei container: non è più nemmeno un problema di prezzi, pure a volerli pagare a peso d’oro non se ne trovano. Sinceramente: faccio l’imprenditore da alcuni decenni, ma non mi sono mai trovato in una situazione del genere”. Come tirano avanti, allora?: “Stringiamo i denti e andiamo avanti, anche grazie alla nostra equipe di collaboratori bravissimi, ma ripeto: se non ci fosse questa situazione, nel 2021 potremmo sfondare il record del fatturato. Purtroppo è una cosa assurda che non riguarda solo noi, ma davvero tutte le imprese. Di certo dovremmo riappropriarci di molte produzioni – puntualizza Riello – che avevamo delegato ad altri paesi. Prenda la Cina, per dire: ne abbiamo fatto la fabbrica del mondo, adesso mettono i dazi all’export, una cosa inaudita”. E l’occupazione?: “È un altro problema che stiamo affrontando: la mancanza di mano d’opera. Stiamo assumendo, facciamo tantissimi colloqui e selezioni, ma stentiamo a trovare persone formate, con un livello di scolarizzazione almeno sufficiente. Anche questo è un grosso ostacolo per lo sviluppo di una impresa e di un paese”. Ci ha messo lo zampino il Reddito di Cittadinanza? Chiede Penelope. La risposta di Alessandro Riello è netta e chiara: “No, non nel nostro settore. Il reddito di cittadinanza può costituire un problema forse per altri tipi di lavori, ristorazione, turismo, stagionali, eccetera. Per noi hanno avuto invece un peso i due anni di DAD, che hanno abbassato molto il livello di preparazione dei giovani. Noi assumiamo persone molto qualificate, e purtroppo è un dato di fatto che in Italia ce ne sono sempre meno”. E i licenziamenti? “E’ un problema che riguarda essenzialmente alcune multinazionali. Le multinazionali comprano, aprono, chiudono, avendo come obiettivo solo il profitto. Noi imprenditori italiani, che siamo nati e cresciuti su un territorio, abbiamo a cuore la nostra gente”.
Anche Riello, però, non rinuncia ad indicare – come gli altri imprenditori, come tutti gli economisti – la <madre> di tutte le priorità: mettiamoci in condizione di non dover chiudere nuovamente per contenere la diffusione del contagio. La vaccinazione è la migliore garanzia per la sicurezza dei lavoratori e il green pass deve essere più che un obbligo, un requisito indispensabile per entrare in luoghi di socialità. Si potrebbe tornare quindi alla sintesi di Draghi durante l’incontro informale con i giornalisti prima della (non) pausa estiva. “Le cose per l’economia italiana vanno bene – disse il presidente del Consiglio – e si spera vadano ancora meglio. Perché continuino ad andar meglio però, voglio lanciare chiaramente un messaggio a tutti noi e a tutti gli italiani: vaccinatevi e rispettate le regole”. In questa situazione quale ruolo svolgono le grandi confederazioni? A parte l’atteggiamento ambiguo sul tema cruciale del green pass, esse hanno evitato con cura di precipitarsi là dove tuona il cannone della ripresa. Per loro l’Italia non può non essere un Paese in crisi. Certo le nostre costituiscono pennellate di un nuovo quadro che non è ancora completo, ma i sindacati sono ancora intenti a fissare una fotografia che sbiadisce sotto i loro occhi. Sembrano gli addetti ad un sistema di protezione civile che – a fronte di uno tsumani – hanno messo al sicuro i lavoratori in luoghi protetti. Finita la catastrofe, non si curano di farli tornare all’aperto per ricostruire la città, ma insistono per trattenerli nei rifugi di fortuna rimediati nell’emergenza. E purtroppo trovano credito in settori della maggioranza e dello stesso governo.
La riforma degli ammortizzatori sociali non è proiettata sull’esigenza di favorire la mobilità del lavoro attraverso il potenziamento delle politiche attive, ma viene presentata come un insieme di provvedimenti finalizzati a svolgere una funzione di protezione analoga a quella che per 500 giorni è stata affidata al blocco dei licenziamenti: mantenere il più possibile il rapporto del lavoratore con l’azienda di appartenenza anche se quel posto non c’è più; fare dell’utilizzo degli ammortizzatori sociali una sorta di percorso obbligato prima di arrivare al licenziamento degli esuberi, anche se si è consapevoli che sarà quello l’esito finale. Poi, nel momento in cui l’economia ha bisogno di investimenti esteri e ci sono investitori disposti a farli, qualcuno si è inventato – al solo scopo di fare la guerra ad alcune multinazionali che intendono andarsene dall’Italia – il decreto sulle delocalizzazioni, senza rendersi conto che noi non siamo i più furbi che riusciamo a prendere di sorpresa le multinazionali degli altri, mentre le nostre eviteranno misure di ritorsione.
L’Italia è un Paese che delocalizza, né più né meno di altri. Secondo l’Istat nel 2017 le imprese a controllo estero residenti in Italia sono 14.994, con 1,4 milioni di addetti, un fatturato di 572 miliardi di euro, un valore aggiunto di 119 miliardi e un valore rilevante (3,3 miliardi) di spesa per ricerca e sviluppo. Queste imprese contribuiscono ai principali aggregati economici nazionali dell’industria e dei servizi con l’8,0 % degli addetti, il 18,5 % del fatturato e il 15,3 % del valore aggiunto. L’apporto del capitale estero è rilevante anche per la spesa delle imprese per ricerca e sviluppo (22,4 %) e le esportazioni e importazioni nazionali di merci, pari rispettivamente al 28,0 e al 47,7 %. Nello stesso anno, le imprese a controllo nazionale residenti all’estero sono 23.727 realizzano un fatturato di 538 miliardi di euro e impiegano 1,8 milioni di addetti. Il grado di internazionalizzazione del sistema produttivo italiano può essere valutato sulla base dell’incidenza delle attività realizzate all’estero rispetto al complesso di quelle svolte in Italia. In alcuni settori dell’industria e dei servizi il grado di internazionalizzazione, misurato in termini di fatturato, è particolarmente elevato: si tratta del settore estrazione di minerali da cave e miniere, che realizza all’estero un fatturato pari al 53,2 % di quello nazionale di settore, seguono le attività manifatturiere, che nel complesso realizzano all’estero un fatturato pari al 25,5% di quello conseguito in Italia. All’interno del manifatturiero emergono il settore della fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi, che realizza all’estero un fatturato pari al 134,1 per cento di quello nazionale, e il settore fabbricazione di apparecchiature elettriche e apparecchiature per uso domestico non elettriche, che ha un fatturato estero pari al 31,0 % di quello nazionale.
Membro del Comitato scientifico ADAPT