Bollettino ADAPT 1 aprile 2019, n. 13
Sono tendenzialmente contrario all’introduzione per legge di un salario minimo orario di applicazione generale, mentre credo che il tema possa essere affrontato nei termini previsti nella delega “dimenticata” contenuta nel jobs act, se non addirittura dalle norme di cui alla legge n.92/2012 (la riforma del mercato del lavoro di Elsa Fornero, risparmiata dai persecutori a oltranza del riordino del sistema pensionistico). Ciò premesso in via di principio, nei fatti non condivido il ddl Catalfo (AS 658) che svolge il ruolo di testo base per l’esame, in Commissione Lavoro del Senato, di un provvedimento che abbia proprio quelle caratteristiche e finalità di stabilire una soglia retributiva garantita.
Eppure quel ddl mi ha incuriosito ed insospettito, perché – da quando mi occupo (sono trascorsi più di 50 anni) in qualche modo di diritto sindacale, previdenziale e del lavoro in senso stretto – mi era capitato poche altre volte di imbattermi in un ddl tanto pro-unions, ancor più che pro-labour. Posso sbagliarmi, capita ad una certa età di non avere più una memoria lucida, ma i contenuti di questo disegno di legge, a prima firma di Nunzia Catalfo, presidente della Commissione, non lasciano margini di equivoco: sono tutelate tutte le preoccupazioni delle organizzazioni sindacali (con appresso la Confindustria) rispetto ad un eventuale smic e si cerca di risolvere (non è detto – come vedremo – che ci si riesca) altri delicati problemi come quelli della rappresentanza e dell’efficacia erga omnes dei contratti nazionali.
Se queste considerazioni hanno un minimo di fondamento (sfido chiunque a poterlo negare) si pone innanzitutto un interrogativo di carattere politico: perché il M5S scende in campo a fianco delle parti sociali (al dunque delle confederazioni storiche)? Ricordiamo quanto stava scritto nel programma pentastellato a proposito dei sindacati? “Il MoVimento 5 Stelle vuole garantire a tutti i lavoratori il diritto di poter scegliere le proprie rappresentanze sindacali e di essere eletti, con una competizione aperta tra tutte le sigle, indipendentemente dall’aver firmato gli accordi con le controparti. Si tratta di applicare, finalmente, in modo compiuto l’articolo 39 della Costituzione sulla libera iniziativa sindacale”. In sostanza, veniva elevata a potenza la logica (anti primato delle confederazioni storiche) che nel 1995 aveva portato al referendum “manipolativo” dell’art.19 dello Statuto. Oggi, invece, il ddl Catalfo finirebbe per ripristinare quel criterio di maggiore rappresentatività che fu abrogato proprio dall’esito referendum citato. Nell’articolo 3 si parla espressamente dei “contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria stessa”: è la stessa definizione che si trovava nella lettera a) dell’articolo 19 abrogata per via referendaria (ecco il testo: “delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale”;).
L’altro grande assist del M5S al sindacalismo storico (tanto dei lavoratori quanto dei datori) riguarda la loro più grave preoccupazione: l’effetto dumping dei contratti-pirata attraverso la proliferazione dei contratti collettivi nazionali che, dal 2012 al 2017, sono passati da 549 a 823 (nel solo settore edile da 28 a 63), caratterizzati da contenuti economici e normativi inferiori a quelli dei contratti canonici. Il ddl Catalfo, sempre nel fatidico articolo 3, sancisce che, in presenza di una pluralità di contratti collettivi applicabili, il trattamento economico complessivo che costituisce retribuzione proporzionata e sufficiente non può essere inferiore a quello previsto dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria stessa.
In sostanza, il M5S si presenta sulla scena delle relazioni industriali nel ruolo di Lord Protettore degli assetti tradizionali, sgombrando per legge gli elementi critici che hanno messo in crisi lo status – octroyé – di maggiore rappresentatività. Si arriva persino a rinviare al testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014 l’applicazione dei criteri associativi ed elettorali necessari a valutare la rappresentatività in senso comparativo.
Vi è dietro un disegno politico? Di certo, non è casuale che Luigi Di Maio abbia sfidato il Pd di Nicola Zingaretti a confrontarsi sull’introduzione di un salario minimo orario. Anche esponenti del Pd, al Senato, hanno presentato un ddl a prima firma Laus (AS 310) che, tuttavia, ha ricevuto una sonante osservazione critica da parte del Cnel per il mancato coinvolgimento delle parti sociali. “La mancanza di compartecipazione da parte degli attori sociali interessati a momenti decisionali particolarmente complessi, rischia – è scritto in una nota del Cnel – di ridurre ad un mero atto amministrativo il percorso di adeguamento delle dinamiche salariali alle evoluzioni dei contesti produttivi e alle implicazioni di natura sociale che vi sono sottesi”.
Il ddl 658 non mi incute curiosità e sospetto soltanto per quanto riguarda i rapporti politici. Considero niente affatto banale il progetto tecnico-giuridico attraverso il quale si intende attribuire efficacia erga omnes ai contratti collettivi stipulati dalle parti più rappresentative. In pratica, viene aggirato e accantonato – a futura memoria – l’articolo 39 Cost., mentre si percorre la strada indicata dall’articolo 36 Cost., stabilendo che il trattamento economico complessivo (si va oltre il concetto di minimi tabellari) proporzionato alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, è quello stabilito dai contratti sottoscritti dagli appartenenti al club della maggiore rappresentatività.
L’operazione non è priva di senso: in fondo, viene tradotta in norma di legge una interpretazione giurisprudenziale consolidata dell’articolo 36. Ma è davvero legittima un’operazione siffatta? Ne dubito. L’articolo 39 è una sorta di Ghino di Tacco non aggirabile. La giurisprudenza applicativa dell’articolo 36 ha dovuto stabilire dei riferimenti compatibili con i requisiti di una retribuzione proporzionata e sufficiente, ma non può legittimare procedure di accertamento della rappresentanza e di rappresentatività e modalità di negoziazione dei contratti collettivi dotati di validità generale, diverse da quelle che vengono sancite, secondo criteri specifici, in un’altra norma di rango costituzionale. C’è poi la questione del vincolo di 9 euro orari lordi. Ma non aggiungiamo ulteriori critiche alle tante che sono state avanzate in proposito.
Membro del Comitato scientifico ADAPT