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Luigi Di Maio, a Torino, ha colto l’occasione del Festival del Lavoro per lanciare una fatwa contro i sindacati. Al di là delle reazioni risentite dei leader sindacali è inevitabile colpire qualcuno quando si spara sulla Croce rossa. Del resto, anche un orologio rotto per due volte al giorno segna l’ora giusta.
Ma le proposte dei “grillincasaleggesi’’ non sono la soluzione. Per rendersene conto, è sufficiente leggere quanto prevede il programma del movimento in materia di lavoro e valutarne la linea di condotta laddove governa, come a Roma. Cominciamo dal programma. Uno dei consulenti – Giorgio Cremaschi, già alla testa, prima della pensione, della componente più radicale della Cgil – li ha convinti (all’insegna del “uno vale uno”) a sbarazzarsi delle norme in tema di rappresentanza sindacale che in Italia (come in tutti i Paesi industrializzati) prevedono dei criteri di maggiore rappresentatività (articolo 19 dello Statuto come modificato dal referendum del 1995) per accedere ai diritti sindacali e all’esercizio della contrattazione collettiva. Giorgio Cremaschi aveva spiegato, nel post pubblicato sul blog di Beppe Grillo, che attualmente “nel mondo del sindacato non può succedere che una lista nuova si presenti alle elezioni delle rappresentanze sindacali aziendali, cioè quelle che hanno il compito di tutela immediata dei lavoratori nei luoghi di lavoro in tutte le aziende sopra 15 dipendenti, pubbliche e private. Le rappresentanze sindacali possono essere solo nominate dalle organizzazioni precedenti, cioè addirittura neanche elette, oppure se elette, solo tra liste di chi c’era prima, cioè di sindacati e organizzazioni già firmatari di contratti”. In verità non vi è cenno in queste parole degli effetti provocati sull’articolo 19 dal referendum del quale – non vorremmo ricordare male – Cremaschi fu uno dei promotori: i contratti richiamati nella norma sono quelli applicati in azienda.
Ma Cremaschi insiste. A suo avviso è necessario “garantire che in tutti i luoghi di lavoro sopra i 15 dipendenti i lavoratori possano eleggere delle rappresentanze sindacali come previsto dallo Statuto dei lavoratori, e che tutti siano elettori ed eleggibili, che con minime regole tutti possano partecipare con liste delle organizzazioni sindacali tradizionali, o con liste delle organizzazioni sindacali nuove, o con liste delle organizzazioni sindacali di base, o con liste di lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro. Che tutti possano partecipare alle elezioni, e poi siano i lavoratori stessi a decidere chi li rappresenta nei luoghi di lavoro”. Tale apertura, andrebbe a incidere duramente sul potere attualmente detenuto da Cgil, Cisl e Uil. In pratica, si aprirebbe un’autostrada per il c.d. sindacalismo di base che si caratterizza – i casi sono sotto gli occhi di tutti
– per l’irresponsabilità verso le imprese e i cittadini. Ma al M5S questa soluzione è piaciuta tanto da averla fatta propria.
Quando si cuciono i programmi come se fossero il vestito di Arlecchino, si incorre in spiacevoli infortuni. Il M5S accarezza, in un’altra parte del programma, l’idea della “cogestione alla tedesca” con la partecipazione dei lavoratori ai consigli di amministrazione, di gestione o comunque di sorveglianza dell’impresa, incluse forme di partecipazione agli utili. In sostanza anche nel caso dei sindacati il M5S la regola sarebbe la stessa prevista per i partiti: la disintermediazione dei soggetti collettivi nel rapporto tra datori e lavoratori, i quali sarebbero coinvolti direttamente nella vita delle aziende (tramite la piattaforma Rousseau?). L’obiettivo sarebbe quello di accrescere le sinergie tra le parti produttive, nell’ottica di un rafforzamento complessivo dell’azienda e del perseguimento di obiettivi sempre più condivisi. In sostanza, con un ampio volo pindarico incurante delle coerenze, il M5S apre nello stesso tempo all’estrema sinistra sindacale (sul terreno della rappresentanza) e all’ala moderata (su quello della partecipazione) e tenta di colpire al cuore le confederazioni storiche alle quali promette un repulisti: “Il M5S vuole tagliare gli anacronistici privilegi che, all’interno del sistema sindacale, hanno contribuito a creare situazioni da ‘casta’, completamente scollata dalla realtà del lavoro che cambia”.
E a Roma? In presenza di tanta durezza c’è da immaginare che nella Capitale i sindacati siano stati messi in riga. Sbagliato. La sindaca Raggi – facendosi dare del lei? – ha sottoscritto, nel giugno scorso – proprio con Cgil, Cisl e Uil – un Protocollo, vibrante ed altisonante, che regola (a proposito degli “anacronistici privilegi”) i reciproci rapporti. È seguita, poi, la stipula di un Contratto decentrato integrativo, composto da 40 articoli distribuiti su 35 pagine cosparse di firme. I dirigenti sindacali non hanno guardato in faccia a nessuno anche a costo di approfittare dell’inesperienza della Sindaca e della Giunta per ottenere – con il pretesto di una valutazione oggettiva per qualunque istituto normativo od erogazione retributiva – un “riconoscimento’’ in busta paga di ogni atto, gesto, iniziativa che i dipendenti svolgono nell’ambito della loro prestazione (come se la normale retribuzione contrattuale fosse comunque dovuta).
Certo, la Giunta Raggi può legittimamente sostenere di essersi mossa nell’ambito di un contesto consolidato e di aver cercato di introdurre dei criteri di valutazione oggettivi (fino a perdersi nei meandri dei parametri individuati anche per premiare persino chi dice educatamente “buon giorno” ai colleghi, entrando in ufficio). In sostanza, il quadro normativo della gestione del personale rimane più o meno quello di sempre. Basti osservare il numero e la qualità delle indennità accessorie previste: turnazioni, reperibilità (anche a Capodanno?), rischio, maneggio valori, disagi operativi. Oppure il sistema di valutazione della produttività corredato di una scala di punteggi riferiti a declaratorie tanto ampie e generiche da essere oggetto di interpretazione difforme e quindi di contestazione.
Ma uno degli aspetti più discutibili sembra essere quello della progressione di carriera: un meccanismo che non si basa sui posti disponibili in organico, ma sulla (supposta) crescita professionale del dipendente, in quanto gli viene riconosciuto di attivare la procedura e far valere i titoli. Vorremmo sbagliare, ma questi percorsi possono determinare un periodico scorrimento di buona parte del personale verso posizioni lavorative più elevate senza che muti sostanzialmente l’organizzazione del lavoro. Di conseguenza, l’inquadramento e il livello retributivo verrebbero ad assumere un valore soggettivo; non sarebbero più ragguagliati alle mansioni a cui il lavoratore è adibito ma alle sue capacità professionali dichiarate e documentate sulla base dei requisiti previsti. I criteri di scelta e di promozione saranno pure oggettivi, ma questa procedura ci sembra confermare la logica – vecchia come il cucco – del todos caballeros. Alla fine, in una dichiarazione comune, le parti parlano di un risparmio di 15 milioni e ne attendono la certificazione. Staremo a vedere. Senza pregiudizi, ma con qualche dubbio.
Membro del Comitato scientifico ADAPT