«Introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché, fino al loro superamento, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali».
In queste parole, contenute nella legge delega n. 183/2015 (Jobs act Poletti 2.0), si sostanzia il progetto di salario minimo legale su cui starebbe lavorando il Governo nel dare corso ai decreti attuativi.
Nella norma è prevista un’eventuale fase di sperimentazione. Più complessa ed articolata è la delimitazione della platea. Si comincia con l’applicazione «a tutti i rapporti aventi per oggetto una prestazione di lavoro subordinato». Subito dopo, nelle varie navette tra le due Camere, sono stati aggiunti, «fino al loro superamento», i rapporti di collaborazione nei settori non regolati da contratti collettivi. In sostanza, trova conferma, anche per questo aspetto, quell’approccio al concetto di dipendenza di carattere economico sulla base del quale, a stare ai contenuti dello schema delle forme contrattuali, una quota di co.co.co dovrebbe ricevere il medesimo trattamento dei lavoratori dipendenti (resta solo da chiedersi che senso abbia tornare, ai co.co.co – cioè ad una disciplina precedente la legge Biagi – abolendo in pratica i contratti a progetto).
Chiarito, inoltre, che il salario minimo non ha nulla da spartire con il reddito minimo (il primo, è un livello legale a cui devono sottostare le retribuzioni; il secondo, una prestazione sociale a carico dello Stato) l’introduzione del nuovo istituto, nel nostro sistema, rischia di non essere conveniente per i lavoratori.
Certo, nell’Unione europea in ben 21 Paesi è in vigore il salario minimo e l’Italia è inadempiente anche a tale proposito. Persino la Germania (dove vi sono alcuni milioni di mini-jobs) ha fissato in 8,5 euro il compenso orario minimo (da noi si parla di 7 euro circa). Ma come ha dimostrato Silva Spattini nel suo saggio Salario minimo legale vs contrattazione collettiva in Italia e in Europa, in Boll. ADAPT, n. 11/2015 – non si tratta di una delle solite inadempienze del nostro Paese, perché il benchmarking è lì a provare che vi è una correlazione inversa tra la copertura della contrattazione collettiva (che in Italia è pari all’85% tra le più elevate nel Paesi Ocse) e l’istituzione del “compenso orario minimo”.
Anche altri Paesi caratterizzati da un’alta copertura della contrattazione collettiva (Austria, Svezia, Finlandia, Danimarca) sono privi di un salario minimo legale. Senza voler trasformare un dibattito pratico in un conflitto ideologico, sarebbe bene valutare la struttura delle relazioni industriali di ciascun Paese, la funzione dei suoi istituti contrattuali e retributivi e gli orientamenti consolidati della giurisprudenza (il c.d. diritto vivente).
Si scoprirebbe, così, che, da noi, il salario minimo esiste già anche se non si chiama così. E a prevederlo è, niente meno, un articolo della Costituzione ritenuto precettivo da una giurisprudenza consolidata pluridecennale. Ai sensi dell’articolo 36 della Carta il lavoratore ha diritto a una «retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa». E i giudici, chiamati a definire tale trattamento, hanno fatto costantemente riferimento alla retribuzione di base (i c.d. minimi tabellari) prevista dai contratti collettivi nazionali di categoria o di settore produttivo (in dottrina si parla di «meccanismo di estensione indiretta del contratto nazionale»). Così, le retribuzioni individuate in rapporto alle tabelle fissate nei contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, costituiscono, in giudizio, il livello minimo vincolante per tutti i rapporti di lavoro di quella categoria o di quel settore.
In sostanza, con l’interpretazione giurisprudenziale dell’articolo 36 Cost. si è giunti al riconoscimento di un salario minimo garantito. Il canone giurisprudenziale di “retribuzione minima” si è, dunque, storicamente consolidato, diventando di generale applicazione. Che senso avrebbe, allora, cimentarsi con un problema già risolto, almeno per i lavoratori dipendenti, (per i collaboratori la soluzione è indicata nella legge Fornero, anche se non ha avuto ancora applicazione) finendo per abbassare il livello di tutela ora assicurato dalla contrattazione collettiva e dalla giurisprudenza, dal momento che, per definizione, il salario minimo legale non potrà che essere inferiore a quello contrattuale?
Anche il Libro Bianco, in tema di politiche retributive e di salario minimo legale, confermava questa tesi: «Il sistema di determinazione del salario in Italia favorisce – era scritto – il permanere di una struttura delle retribuzioni relativamente poco articolata. Inoltre, è da ricordare l’assenza di un regime di salario minimo legale. Tale funzione, infatti, è esercitata dai contratti collettivi nazionali di settore. Rispetto ad altri Paesi, questa funzione è però svolta con minore efficacia, in termini di prevenzione di abusi, visto che i Ccnl hanno livelli salariali, in termini relativi rispetto alla retribuzione media effettiva, piuttosto elevati. Il livello dei minimi sanciti dai Ccnl corrisponde tra i due terzi e i tre quarti del salario medio effettivo, ben al di sopra del 50% circa garantito dai salari minimi legali nella maggior parte degli altri Paesi europei che hanno questo strumento».
Tali considerazioni sembrerebbero fornire un assist all’introduzione, anche nel nostro Paese, del salario minimo legale, sulla base della considerazione per cui i livelli previsti dalla contrattazione nazionale sono troppo elevati, rispetto al salario medio effettivo, per svolgere la funzione di “minimi”. Non a caso Silvia Spattini nel suo scritto sottolinea che, secondo la letteratura economica, gli effetti negativi e discorsivi del salario minimo legale si accentuino quando esso superi il 60% del salario effettivo. Viene da chiedersi, conclusivamente, per quali motivi il Governo si sia posto questo problema che – nei termini residuali con cui viene trattato – era già stato risolto dalla legge n. 92/2012: si tratta di allinearsi con un trend europeo quasi fosse una moda oppure vi è sotteso un disegno ambizioso di ridimensionare, attraverso una graduale riduzione del tasso di copertura, la contrattazione nazionale a favore di quella di “prossimità”?
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus