Quanti sono coloro che – se avessero un briciolo di onestà intellettuale – dovrebbero scusarsi con Sergio Marchionne? Oggi, dopo l’Assemblea degli azionisti di Amsterdam (dove sono stati presentati lusinghieri risultati delle vendite e di bilancio) e la “svolta” sul piano delle relazioni industriali e delle politiche retributive, l’ad di Fca viaggia sugli scudi.
Il Lingotto (usiamo un termine ormai superato, ma rimasto nell’immaginario collettivo) può vantare di aver smentito le accuse e mantenuto le promesse. Cominciamo dalle prime. Il gruppo (ormai una multinazionale tra le più competitive) non ha abbandonato l’Italia e non ha intenzione di farlo.
Quanto alle promesse, ha effettuato gli investimenti contenuti nel Piano Fabbrica Italia (lo stabilimento di Pomigliano d’Arco ha cambiato pelle ed è riconosciuto come uno dei più moderni in Europa). Fca ha recuperato importanti quote di mercato soprattutto grazie a quei nuovi prodotti che venivano derisi dai reggicoda della Fiom (si veda il successo delle vendite della Jeep fabbricata nello stabilimento di Cassino), sta predisponendo il rientro dalla Cassa integrazione per migliaia di lavoratori ed è tornata ad assumere, a partire da Melfi, dove è operante, da decenni, uno stabilimento (ex Fiat) che, a suo tempo, sorse con criteri innovativi e che, sia pure tra problemi e difficoltà, si è posto all’avanguardia, concretamente, di un “nuovo modo di fare l’automobile” e di investire nel Mezzogiorno. Oggi Melfi è l’emblema della ri-partenza dell’industria dell’auto e della svolta, anche in Italia, del Lingotto (i cui punti di forza, ormai, si trovano tutti nelle regioni del Sud).
Al cospetto di questo quadro economico e produttivo (che non può essere attribuito soltanto al miglioramento di quella che un tempo si chiamava la “congiuntura”, ma che va anche a merito delle scelte e dell’iniziative del management del gruppo) il ciarliero Maurizio Landini sembra ammutolito, non riesce a trovare argomenti per giustificare la linea di condotta della sua organizzazione (che peraltro non scende dall’Aventino su cui si è ritirata cinque anni or sono) e si dedica alla costruzione della “Coalizione sociale” insieme ai “soliti noti” del “movimentismo” de noantri.
Sul versante della politica salariale (per il miglioramento delle retribuzioni dei 50mila dipendenti nel nostro Paese sono stati stanziati 600 milioni, che verranno distribuiti e modulati sulla base del raggiungimento dei risultati produttivi programmati, fino ad un massimo di 10.700 euro pro capite) occorre riconoscere che la linea annunciata da Marchionne non sarebbe stata possibile senza quella radicale trasformazione degli assetti contrattuali che hanno portato Fca ad avere una contrattazione collettiva autonoma, fuori dal contratto nazionale dei metalmeccanici, realizzando così il duplice obiettivo di un assetto – insieme – di prossimità ed uniforme sul piano nazionale.
Se il silenzio imbarazzato di Maurizio Landini suona come l’ammissione della sconfitta, sono tanti altri quelli che dovrebbero scusarsi. Nel 2010, ai tempi del “tormentone” di Pomigliano, quando la Fiat veniva accusata di ferire a morte i diritti sacrosanti dei lavoratori, la grande maggioranza dei giuslavoristi non esitarono a schierarsi con la Fiom che accusava il Lingotto di voler imporre un metodo ottocentesco (se non addirittura medievale) nel campo delle relazioni industriali.
Quelle stesse forze politiche e sindacali le quali, tutto sommato, ritenevano che l’accordo dovesse essere firmato (soprattutto dopo l’esito favorevole del referendum tra i lavoratori), lo facevano in nome di una sorta di stato di necessità. Persino i più moderati tra i dirigenti del Pd sostenevano che occorreva sottoscrivere quell’accordo in una logica di “male minore”; ma doveva essere il primo e l’ultimo dei contratti di quel tipo. Proprio così: un accordo che difendeva l’occupazione e creava sviluppo in un’area critica del Paese era coperto di contumelie soltanto perché si permetteva di contrastare l’assenteismo e di riorganizzare i turni al fine di una migliore saturazione degli impianti. Nel referendum che seguì (ed approvò) l’accordo sulla produttività, tutti gli imbonitori televisivi tifavano per Maurizio Landini e soci, mentre i lavoratori che avevano votato a favore erano giustificati, con compassionevole disprezzo, all’insegna del “tengo famiglia”.
Sergio Marchionne confermò la posizione, nonostante che lo accusassero di ogni possibile violazione dei diritti. Riuscì a “passare” in tutti gli stabilimenti, poi a realizzare, sulla base di quegli accordi, una sorta di contratto dell’auto, tarato sulle esigenze del suo gruppo. Per farlo dovette uscire dalla Confindustria (un altro soggetto che oggi dovrebbe chiedere scusa), quando si accorse che l’associazione di viale dell’Astronomia gli voltava le spalle e sceglieva il dialogo tormentato con la Cgil.
Il Ministro Maurizio Sacconi aveva fatto approvare dal Parlamento una norma – l’articolo 8 del decreto n. 138/2011 (la norma che Sel, Idv e Fiom volevano abolire con un referendum di cui si è persa traccia) – che avrebbe potuto risolvere il problema del contratto Fiat. Infatti, l’accordo del 28 giugno 2011, sottoscritto anche dalla Cgil, pur dando una risposta alla problematica delle deroghe sollevata dalla Fiat, escludeva dalla sua applicazione, perché sottoscritti in precedenza, proprio gli accordi di Pomigliano e Mirafiori (lasciandoli quindi in balia dei ricorsi giudiziari promossi dalla Fiom); il ministro Sacconi, nel citato articolo 8 della supermanovra di ferragosto, volle inserire una norma che ne confermasse la validità erga omnes.
La Confindustria di Emma Marcegaglia preferì invece sottoscrivere, nel settembre di quell’anno, un’intesa con le confederazioni sindacali in cui si impegnava a non applicare quella norma di carattere derogatorio rispetto ai contratti nazionali e alle disposizioni di legge, attraverso intese a livello decentrato. Fu quel gesto che indusse la Fiat ad andarsene sbattendo la porta. Questa circostanza ha mutato geneticamente la natura stessa dell’organizzazione di Viale dell’Astronomia dove adesso le grandi imprese associate sono in prevalenza quelle partecipate dallo Stato.
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus