La domanda è: sarebbe stato possibile – per di più a poco tempo di distanza – il Jobs Act Poletti 2.0 senza il “passaggio” della riforma Fornero (legge n. 92 del 2012)? Se lo devono chiedere quanti – sul fronte della sinistra più o meno riformista o dei moderati di centro-destra – si sono confrontati, in questi anni, sul tema del lavoro. Ad avviso di chi scrive – che a suo tempo fu molto critico con la legge Fornero – tra i due provvedimenti c’è una linea di continuità. Quasi una staffetta. La legge n. 92 ebbe il compito di aprire dei varchi nelle convinzioni e nelle ideologie consolidate; nel compiere tale funzione di rottura finì, qualche volta, per esagerare e per non tenere adeguatamente in considerazione la realtà concreta del mercato del lavoro.
Certamente il Jobs Act presenta molte più aperture della riforma Fornero; ma le radici di queste innovazioni risalgono, in larga misura, a quel precedente contesto. Cominciamo rivolgendo lo sguardo a sinistra e al tabù dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Alla luce del decreto legislativo che attende la firma del Capo dello Stato e la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, la tutela normale contro il licenziamento ingiustificato diventa l’indennità risarcitoria, salvo la possibilità di reintegra nel caso di licenziamento nullo, discriminatorio o privo di forma scritta e – in materia di recesso per motivi disciplinari – qualora sia provata in giudizio (dal lavoratore) «l’insussistenza del fatto materiale», senza che al giudice sia consentito di accertare l’eventuale sproporzione tra la sanzione del licenziamento e il fatto contestato al lavoratore. In precedenza la possibilità di sanzionare il licenziamento ingiustificato con la reintegra era possibile – sia pure in casi eccezionali («la manifesta insussistenza del fatto») – anche in materia di licenziamenti economici e di licenziamenti disciplinari a fronte dell’insussistenza del fatto o della previsione di una sanzione conservativa da parte della contrattazione collettiva. Il cambiamento si nota ed è significativo, ma il primo timido e confuso passo era già stato compiuto nel 2012. Tanto più che quella disciplina aveva il grande merito di valere per tutti i lavoratori e non solo per i nuovi assunti.
In noi crea un certo stupore – per come le cose sono mutate nel giro di pochi anni – la circostanza che una parte consistente della sinistra si sarebbe accontentata, adesso, di escludere i licenziamenti collettivi (nel momento in cui essi diventano individuali) dalla disciplina generale (di carattere obbligatorio) prevista per i recessi (ingiustificati) per motivi economici. Certo, non occorre scomodare le piazze arringate, capelli al vento, da Sergio Cofferati nell’ormai lontano 2003; basta leggere talune dichiarazioni più recenti di qualche esponente democratico per valutare quanta acqua è passata sotto i ponti perché una società civile scopra all’improvviso di possedere, a sua insaputa, la consapevolezza che – per quanto lo si negasse – l’articolo 18 qualche problema lo dava.
Continuiamo a pensare che un momento importante di rottura vada attribuito alla riforma del contratto a termine (il Jobs Act Poletti 1.0). Anche in questo caso, però, lo spunto per la liberalizzazione è venuto (limitatamente a 12 mesi) dalla legge Fornero. Rivolgendoci poi al fronte di centro destra, gli riconosciamo subito il buon diritto di rivendicare delle innovazioni importanti in materia di licenziamento e di aver ottenuto, pertanto, quella maggiore flessibilità in uscita che può giustificare – meglio che nel quadro della legge n. 92 – qualche giro di vite sui rapporti atipici in entrata. Ciò premesso, il maggiore equilibrio è tale da giustificare degli interventi molto più radicali come quelli che prefigura – in particolare per le collaborazioni – lo schema di decreto legislativo sulle forme contrattuali?
La politica ha le sue stagioni. Ed è costretta a consumarle in un breve lasso di tempo per poter proseguire oltre. Ma non sono trascorsi molti mesi da quando quei gruppi di centro destra – che oggi salutano con moderata soddisfazione i decreti attuativi del Jobs Act – presentavano disegni di legge rivolti ad abrogare la riforma Fornero e a ripristinare, punto per punto, quanto della legge Biagi era stato modificato da quel provvedimento. Agli osservatori, resta solo da constatare, in conclusione, che le riforme, specie se in materie delicate come il lavoro, non procedono mai in modo rettilineo, ma spesso lungo percorsi trasversali, talvolta persino a zig zag. In altre circostanze finiscono in una strada senza uscita. L’importante, tuttavia, è valutare se, nonostante questo incedere confuso, il fronte avanza o indietreggia. Per ora avanza.
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus