Questa volta la Corte Costituzionale è stata “politicamente corretta”. Ha avvertito in anticipo, con un comunicato essenziale, il Governo sulle decisioni che avrebbe preso sul ricorso in materia di blocco dei contratti pubblici, garantendo, nel medesimo tempo, che non ci sarebbe stata quella retroattività tanto temuta perché avrebbe sconvolto i conti pubblici (ammesso e non concesso che sarebbe stato possibile sbrogliare la matassa di come riuscire a rinnovare retroattivamente dei contratti di lavoro anch’essi di diritto comune).
Così tutti hanno tirato un gran sospiro di sollievo: il Governo che deve trovare le risorse per i rinnovi nella prossima legge di stabilità (salvo dover corrispondere, probabilmente, già nel 2015 l’indennità di vacanza contrattuale); i sindacati che si vedono aprire la strada della contrattazione; gli osservatori e i media ormai abituati a “legare l’asino dove vuole il padrone”. Nessuno, allora, si prende la briga di porsi e di porre ai “giudici delle leggi” alcune domande, ben sapendo che – se verranno e saranno convincenti – le risposte le avremo nella pubblicazione della sentenza, che dovrebbe avvenire prima che si concluda (il 10 luglio) il mandato di un altro giudice che ha preso parte all’esame del ricorso. Ma quando si sente parlare di “illegittimità costituzionale sopravvenuta” dal giorno della pubblicazione della sentenza, superato l’attimo del brivido lungo la schiena, vien fatto di domandarsi se ancora esistono delle regole o se queste devono essere adattate forzatamente ad esigenze di oggettiva natura politica. Poi si è indotti a far finta di nulla per non cadere dalla padella alla brace e passare così, involontariamente, dall’altra parte della barricata, perché se una norma è incostituzionale lo è dall’inizio, non lo diventa strada facendo.
Immaginiamo, pertanto, quali saranno le motivazioni della Consulta: il blocco non è di per sé illegittimo, ma anche in questo caso vale il principio della ragionevolezza; e un blocco durato sei anni non risponde a questo criterio; così la misura non potrà più avere applicazione, a partire da una data certa che i “giudici delle leggi” individuano nel giorno della pubblicazione della sentenza, che in questo modo acquista – udite ! udite! – l’effetto dichiarativo della fine di quella crisi finanziaria che aveva dato origine ai mancati rinnovi. Da tempo, alla faccia della “bilancia dei poteri”, la magistratura ha messo sotto tutela la politica con la pretesa di esercitare un “controllo etico di qualità”. Così, interviene indirettamente sulla formazione delle liste elettorali e sulla composizione dei Governi. È sufficiente “passare” a qualche giornalista amico la “velina” di un brano della registrazione di una conversazione telefonica, un tantino equivoca e pruriginosa, per celebrare un bel processo in piazza ai danni del malcapitato. Il resto del lavoro lo compiono i suoi avversari prendendo parte alla gogna mediatica, come strumento spregiudicato di lotta politica, ricordando a noi tutti una battuta fulminante di Winston Churchill («Chi nutre il coccodrillo la fa nella speranza di essere divorato per ultimo»). Più recentemente la magistratura (trainata dalle Procure) si è investita del ruolo di decidere la politica dei lavori pubblici (quale opera può essere costruita e quale no) e quella industriale (quanto acciaio deve essere prodotto nel Paese e quanto importato dall’estero).
Non ci saremmo mai aspettati, tuttavia, che la Corte Costituzionale si arrogasse il diritto di condizionare la politica economica e finanziaria del Paese. Perché di questo si tratta, se guardiamo, senza infingimenti, al significato vero della sentenza n. 70 a proposito della perequazione delle pensioni superiori a tre volte l’importo del minimo e alla più recente decisione (di cui conosciamo solo una sintesi del dispositivo) sul blocco dei contratti pubblici. Nel primo caso, se andiamo alla sostanza delle cose, i “giudici delle leggi” sono intervenuti nel merito di una decisione squisitamente politica: fino a quale livello di reddito è consentito chiedere un sacrificio ai pensionati (titolari di prestazioni sicure e garantite) durante un periodo di crisi. Ma anche nel caso dei contratti pubblici – se le motivazioni saranno quelle che abbiamo tentato di anticipare – di nuovo la Corte ha preteso di svolgere un compito che non le appartiene, intervenendo a gamba tesa nella funzione propria del Governo e del Parlamento.
Ma a quale principio costituzionale si sono attaccati i “giudici delle leggi” per affermare che il rinnovo dei contratti sia un diritto? Forse all’articolo 36 Cost. che riconosce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e comunque sufficiente a condurre una vita dignitosa? Se è così, su quale base, su quali parametri i “giudici delle leggi” hanno ritento che, dal giorno della pubblicazione della sentenza, verranno a mancare quei requisiti di proporzionalità e di sufficienza, se non si provvederà a negoziare nuovi accordi ? A loro risulta che la crisi è finita ? Come affermava Giulio Andreotti «a pensare male si compie un peccato, ma a volte ci si indovina». C’è, dunque, chi si interroga sul bombardamento del Quartier generale iniziato dal Palazzo della Consulta (che sta, non dimentichiamolo, sul Colle più alto di Roma) e sostiene che siano in corso atti di ostilità verso il Governo Renzi (del resto l’Ordinamento giudiziario non è alieno a prendere di mira i leader politici; in fondo Silvio Berlusconi lo hanno affossato le procure e i giudici).
Ma anche senza prestarci alla dietrologia dei “retroscenisti” è evidente – nella sentenza n. 70 e, pensiamo, anche in quella annunciata – che la Consulta contesta il criterio per cui il risanamento possa avvenire a scapito dei diritti, soprattutto di quelli sociali. Non ne fa una questione di principio, ma di misura. Questa visione è due volte sbagliata: in primo luogo perché le prestazioni previdenziali riconosciute dall’articolo 38 Cost. – proprio perché devono essere “adeguate” – non possono non fare riferimento alle disponibilità finanziarie di un Paese. E la ricerca di tale equilibrio, che non è mai definito una volta per tutte – ecco il secondo aspetto – è certamente una scelta politica che spetta al Governo e al Parlamento. A quale titolo il collegio giudicante può sostenere che sarebbe stato pienamente legittimo un blocco della perequazione automatica, se la salvaguardia fosse stata estesa ad alcuni milioni di pensionati in più o se l’embargo sulla contrattazione dei pubblici dipendenti fosse durata due anni anziché sei? E con quali altre misure dovevano essere recuperate le risorse che sarebbero venute a mancare? Con ulteriori imposte? Oppure con maggiori tagli della spending review, quando sono le pensioni, gli stipendi della PA, insieme alla sanità, a costituire la quota largamente prevalente di spesa pubblica, al netto del servizio del debito? Proprio in questi giorni la magistratura contabile ha ammesso che le spending review hanno dei limiti oggettivi, mentre il Paese non sopporterebbe un ulteriore incremento della pressione fiscale. Spetta, dunque, al potere politico comporre il pacchetto delle manovre di bilancio, sulla base di un equilibrio economico e di una sostenibilità sociale di cui risponderà davanti agli elettori.
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus