Venerdì 20 novembre la Corte di Appello di L’Aquila ha condannato a 4 anni e due mesi l’ex presidente della Regione Ottaviano Del Turco con l’accusa di aver costretto Vincenzo Maria Angelini, ex manager della sanità privata abruzzese, a versare a lui e ai suoi collaboratori delle tangenti in cambio di agevolazioni per la sua clinica. La notizia è stata riportata sui giornali in coerenza con l’aria che tira nel Paese, sottolineando come la pena fosse stata dimezzata rispetto a quella (9 anni e sei mesi) comminata nel giudizio di primo grado il 23 luglio del 2013.
Il dramma di Del Turco è iniziato più di otto anni fa. Era il 14 luglio del 2008. Le agenzie, le radio e le tv diedero la notizia che, all’alba, era stato arrestato, insieme ad altri, il Governatore dell’Abruzzo Ottaviano Del Turco. Allora io ero un deputato, appartenente ad un partito diverso da quello di Del Turco. Ma non esitai ad alzarmi in Aula – nel più totale isolamento – per esprimergli tutta la mia solidarietà e la ferma convinzione della sua totale estraneità ai fatti di cui era accusato. Ottaviano ed io ci conoscevamo da 40 anni, durante i quali non c’era stata tra di noi soltanto una stretta collaborazione negli incarichi ricoperti all’interno della Cgil, ma anche un forte legame di amicizia, di frequentazione personale. Il procuratore che lo aveva incarcerato lo ricoprì, nella solita conferenza stampa, di accuse infamanti. Affermò che della sua colpevolezza esistevano prove “schiacciati” (questa persona, dopo essere andato in quiescenza, è ora vice sindaco di L’Aquila). Ma io non fui mai sfiorato dal minimo dubbio (il cuore ha delle ragioni che i codici non conoscono) e, in tutti gli anni successivi, nella ricorrenza del 14 luglio, ho continuato a chiedere la parola in Aula e ad affidare agli atti le mie attestazioni di solidarietà ad Ottaviano.
Approfitto, adesso, dell’opportunità che mi offre ADAPT per ribadire ancora una volta le mie convinzioni, nonostante la nuova condanna, che mi lascia basito, avendo il pm del processo di appello, Ettore Picardi, affermato in aula che «i riscontri per le accuse ci sono ma non sono state trovate le tracce patrimoniali dei reati». Una sorta di sillogismo impazzito. A chi dovesse chiedere che cosa c’entra questo mio scritto con una rubrica dedicata al lavoro, rispondo così: Ottaviano del Turco è stato un grande sindacalista, appartenuto a quell’Olimpo degli eroi di cui hanno fatto parte nomi indimenticabili come Luciano Lama, Bruno Trentin, Pierre Carniti, Giorgio Benvenuto e tanti altri che hanno fatto la storia del sindacato nella seconda metà del secolo scorso. Probabilmente, questi nomi, che a me ricordano tanti anni di vita vissuta intensamente, non dicono quasi nulla a troppi lettori del Bollettino, per i quali Del Turco è soltanto un settantenne, malato di cancro, condannato per corruzione da una Corte di Giustizia: degno esponente, quindi, di quella “casta” i cui vizi sono stati denunciati, a proposito e a sproposito, da tanti “maitres a pénser” che si sono procurati delle vere e proprie fortune di carattere editoriale.
Chi è dunque, che cosa è stato e ha fatto Ottaviano Del Turco? In una delle Lettere morali a Lucilio, Lucio Anneo Seneca così scriveva: «Tutti i momenti che appartengono al passato si trovano in un medesimo spazio: si vedono su di uno stesso piano, giacciono gli uni insieme con gli altri, tutti cadono nel medesimo abisso. E d’altra parte lunghi intervalli non possono sussistere in una realtà (la vita, ndr) che è breve nel suo insieme». È così anche per quanto riguarda il rapporto tra me ed Ottaviano: i ricordi si presentano tutti insieme e in una sola volta. Innanzi tutto, Del Turco è abruzzese. Il suo paese natale si chiama Collelongo. Ci si arriva per una strada che finisce lì. Eppure, per lui quella località sperduta è sempre stata molto importante. Colà ha scelto il suo “buon ritiro” (una bella casa ristrutturata con cura).
Del Turco era molto legato ad un altro grande sindacalista socialista della Cgil, Agostino Marianetti. Furono ambedue assai precoci nell’impegno politico e legati al clan romano di Roberto Palleschi, un dirigente socialista molto potente nella capitale, ma che non riuscì a riciclarsi dopo la caduta di Francesco De Martino, al Midas. Agostino Marianetti era entrato giovanissimo nel sindacato, tanto che, poco più che ventenne, era già nella segreteria della Camera del Lavoro di Roma e consigliere comunale in Campidoglio. Del Turco era, per certi versi, molto simile ad Agostino; certamente non ne aveva il carisma, la durezza nell’impegno politico. Possedeva, però, delle doti innegabili sul piano culturale. È nota la sua attività di pittore: una passione che ha retto persino alla prova degli anni difficili della politica. E, purtroppo, ad eventi dolorosi più recenti.
Più piccolo di una numerosa squadra di fratelli, Ottaviano (il nome è legato al posto occupato nella saga familiare) seguì i più grandi quando andarono a cercare lavoro a Roma. I maschi avevano preso dal padre Giovanni ed erano tutti socialisti. Ottaviano scoprì giovanissimo la politica, anche come mestiere. Era sul palco della direzione (per fare servizio d’ordine) durante l’ultimo congresso del Psi, prima della scissione del Psiup. Ci fu un celebre discorso di Lelio Basso (contro l’ingresso dei socialisti nel Governo) che terminava con la storica frase di Martin Lutero: «Non costringeteci a dire non possumus». Era l’annuncio della spaccatura del partito (che poi avvenne nel 1964 alla costituzione del primo governo organico – come si diceva allora – di centro sinistra, consistente in un’alleanza tra Dc, Psi e partiti laici minori). Del Turco raccontava sempre che Nenni, dopo aver ascoltato quelle parole, cambiò gli appunti che aveva preparato per le conclusioni. «Caro Lelio – tuonò con la sua cadenza romagnola – non siamo chiamati a fare le guerre di religione, ma a portare il Paese sulla via delle riforme».
Chiusa l’esperienza nel partito andò a lavorare al sindacato e si trovò alla Fiom durante l’autunno caldo. A suo onore va detto che non appartenne mai (chi scrive ne fu invece tentato) alla combriccola dei “giovani turchi”, quelli, abbacinati dai fasti di quella stagione, che pensavano fosse venuta l’ora dell’assalto al Palazzo d’Inverno del potere. Fu sempre attento ai rapporti con la Confederazione. Da moderato, non fu mai ben visto completamente nella Fiom, al punto di essere sostanzialmente emarginato (forse si fece estromettere volentieri) dalla gestione della vertenza Fiat del 1980. Aveva delle intuizioni felici. Fu il primo, nel sindacato, a sollevare il problema dei quadri e dei tecnici e ad individuare l’esigenza di soluzioni contrattuali specifiche per queste categorie. La cosa sollevò un mezzo scandalo, come sempre accadeva (e accade) in Cgil quando qualcuno inventava soluzioni nuove. Ma Del Turco non sarà ricordato per la sua capacità di approfondire le questioni di merito, anche se la legge del contrappasso ha voluto che, alcuni decenni dopo, diventasse titolare del Dicastero più tecnico e complicato che esista (le Finanze). Del resto, da un vero leader nessuno pretende una conoscenza particolareggiata del sistema dei ticket sanitari. È stato, però, uno dei primi sindacalisti a capire l’importanza dei media. E a comprendere, soprattutto, che una buona intervista (come aveva insegnato Luciano Lama), magari su La Repubblica, (Vittoria Sivo, una grande giornalista di quei tempi, ha svolto per Del Turco il ruolo di Pigmalione) valeva di più (anche sul piano interno) di un articolato documento, scritto in sindacalese e votato da un organismo sindacale dopo ore di discussione. Durante gli incontri col Governo o qualche importante trattativa, i suoi erano interventi di carattere metodologico o di contenuto politico: sempre importanti e calibrati nel conteso del negoziato. Girava al largo degli spinosi problemi di merito. Ma il suo vero pezzo di bravura si svolgeva quando l’incontro stava per concludersi. Riusciva sempre ad andarsene pochi minuti prima. Scendeva in sala stampa – praticamente da solo – e veniva accerchiato da un nugolo di giornalisti brandenti microfoni, taccuini e telecamere. E dava il suo giudizio sull’incontro. Poi, quando scendevano le delegazioni al gran completo, i colleghi tenevano lunghe conferenze stampa, nelle quali venivano illustrati meticolosamente tutti gli aspetti del negoziato. Ma l’incipit era il più delle volte suo, come sue erano le prime riprese che andavano in onda nei telegiornali e le classiche tre parole che, nella società della comunicazione, mandano al macero intere biblioteche.
Proveniente dalla Fiom, entrò nel 1983 in segreteria confederale e divenne subito “aggiunto” di Lama. La sorte volle che Del Turco si trovasse a gestire la “grande rissa” tra comunisti e socialisti del 1984 e 1985 sulla scala mobile, dopo il decreto di San Valentino. Lo fece con molta fermezza e tanto equilibrio, in tandem con Lama. E sempre con molta attenzione all’unità della Cgil. In quegli anni, circolarono addirittura alcune leggende metropolitane secondo le quali a Del Turco era stato offerto di diventare il segretario di un costituendo sindacato democratico (Cisl + Uil + socialisti Cgil), ma Ottaviano non prese mai in considerazione tale ipotesi. L’atteggiamento di lealtà tenuto in quel periodo gli valse un grande rispetto da parte dei comunisti (i quali erano molto meno settari, al dunque, dei loro eredi di oggi, finiti nella Legione straniera del Pd o sparpagliati in qualche gruppetto nostalgico di ex socialisti). Basti pensare che Del Turco divenne, negli anni successivi, uno degli oratori ufficiali ai funerali dei leader del Pci (a partite da quello – solenne e solennizzato – di Enrico Berlinguer). Un capo, tuttavia, ha anche il dovere di conoscere gli uomini. Anche Del Turco decise di saltare la generazione dei “fratelli” (quella dei primi anni ’60, venuta in Cgil a rimpiazzare l’emorragia psiuppina) e puntò su Guglielmo Epifani, che entrò in segreteria nel 1991, dopo l’uscita di Enzo Ceremigna. Probabilmente Del Turco aveva intuito che il “giovane Werther” (così era soprannominato Epifani che ha ricambiato Ottaviano con tanta ingratitudine) era dotato di un grande avvenire. Guglielmo infatti è succeduto a Sergio Cofferati. Anche se, nel suo caso, Parigi è valsa una messa, anzi una tessera. Come è strano il mondo!
Gli ex comunisti sono diventati democratici per poter governare il Paese; in Cgil, invece, i socialisti si sono trasformati in ex comunisti, per poter restare al loro posto.
Ottaviano, negli ultimi tempi trascorsi in Cgil, era sempre meno interessato all’attività sindacale. Da tanto attendeva che dal partito gli venisse fatta una proposta. La sua maggiore aspirazione sarebbe stata la presidenza della Rai. Ma Craxi taceva. La sua grande occasione si presentò tra il 1992 e il 1993, nel pieno di Tangentopoli. Craxi non era ancora inquisito, ma ormai si era capita l’antifona: sarebbe stato sufficiente attendere qualche settimana, poi la questione socialista si sarebbe trasformato in un problema giudiziario. Claudio Martelli faceva la fronda (il suo slogan, rivolto a Craxi, era: «Un segretario non può diventare il “problema” del suo partito»). Ottaviano si schierò con lui, sia pure su di una linea leggermente diversa. Si mise ad andare il giro per l’Italia a riunire i sindacalisti socialisti all’insegna dell’appello al capo supremo: il partito è inquinato, Craxi faccia pulizia (e magari con l’aiuto di qualche sindacalista autorevole). Intanto, dopo i dissensi con Trentin in merito all’accordo triangolare del luglio 1992, per Del Turco l’aria si era fatta stretta in Cgil. Decise di forzare i tempi ed annunciò che se ne sarebbe andato, anche senza avere altri incarichi a disposizione. Era il marzo del 1993. La maggioranza del partito, poche settimane prima, gli aveva reso un grave affronto, scegliendo Giorgio Benvenuto, quale segretario al posto di re Bettino.
Come Cincinnato Ottaviano si ritirò a Collelongo. Intanto la situazione si deteriorava. Dopo qualche mese Benvenuto passò la mano, in polemica col vecchio gruppo dirigente che, a suo dire, non voleva farsi da parte. Ma in verità non volle prendere a mano la situazione amministrativa che Giorgio considerava disperata. Venne così il momento di chiamare Del Turco alla segreteria. La mossa fu pensata dai vecchi boss che Giorgio Benvenuto aveva lasciato in braghe di tela, con in mano il cerino acceso della estinzione del più vecchio partito politico italiano. Riuscendo a trovare la copertura di una faccia pulita come quella di Ottaviano, essi furono in grado di neutralizzare l’operazione di Benvenuto che sperava di portarsi dietro il partito sano, mollando le casse (vuote) e i debiti al gruppo dirigente craxiano. Del Turco si accinse a guidare i resti del Psi con molta fiducia in se stesso. Ma ormai non c’era più nulla da fare. L’anno dopo, toccò a lui guidare lo scontro decisivo con Craxi e vincerlo. Quando era già troppo tardi. Dopo aver lanciato Enrico Boselli alla guida di ciò che restava dello Sdi, Del Turco divenne parlamentare e ministro. Ritrovò posto sui media e la figlia gli regalò due bei nipotini. Soprattutto, svolse un ruolo assai positivo da presidente della Commissione antimafia, contro l’abuso dei pentiti ed una certa maniera disinvolta di amministrare la giustizia. Poi è stato parlamentare europeo, e infine candidato vittorioso del centro sinistra alla presidenza della Regione Abruzzo.
In quel ruolo è stato vittima di un clamoroso errore giudiziario che ne ha provocato l’arresto, le dimissioni e l’ostracismo. Dicono che un Paese è libero quando i cittadini onesti, sentendo suonare il mattino presto alla porta di casa, pensano che sia il lattaio. Probabilmente anche Ottaviano Del Turco, esattamente il 14 luglio del 2008, si chiese come mai il lattaio passasse ad un’ora antelucana in quel giorno destinato a diventare uno dei più drammatici della sua vita. Invece, aprendo ancora assonnato il portone dell’abitazione di Collelongo, trovò i militari della Guardia di Finanza che gli intimarono di raccogliere un po’ di biancheria e lo condussero nel carcere di Sulmona a rispondere di un’imputazione pesante e disonorevole per un uomo politico, come la corruzione. Chi scrive conferma la convinzione più volte manifestata in tante sedi che Del Turco sia completamente estraneo alle accuse, tanto da ripetere un nuovo “caso Tortora”. Da allora, pur essendo innocente (come chiunque non sia stato condannato da una sentenza passata in giudicato), Del Turco è un uomo isolato e ignorato dal suo partito, dimenticato da tutti tranne che dai familiari e dagli amici, ferito nei sentimenti più intimi, escluso da quella politica attiva che ha rappresentato per decenni la sua ragione di vita. Anche lui – ci auguriamo – troverà prima o poi “un giudice a Berlino”. Non lo ha trovato nel giudizio di primo grado né in appello. Speriamo nella Suprema Corte di Cassazione.
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus