22 aprile 2014
Dixi et servavi animam meam. Questa affermazione è una sorta di salvacondotto etico che di solito viene adoperato senza scrupoli da coloro che non hanno il coraggio di agire, ma solo di parlare. Pensano che per mettersi in pace con la propria coscienza sia sufficiente prendere le distanze da un evento, dichiarando la propria estraneità, il proprio dissenso. Come se non sapessero che per l’Onnipotente non contano le parole, ma le opere. Nel nostro caso, basterebbe cambiare soltanto il verbo e usare il perfetto di scribere al posto di quello di dire. Ma il problema non cambierebbe, quanto a salvezza dell’anima. Eppure, anche nel testo del decreto legge n. 34 approvato dalla Commissione Lavoro della Camera (in queste ore all’esame dell’Aula) è vistoso il tentativo di salvarsi l’anima da parte dei protagonisti delle mediazioni intervenute tra il ministro Giuliano Poletti (in quota Pd) e le diverse componenti del suo stesso partito che quella stesura hanno scritto, emendato e votato praticamente in solitudine anche rispetto ai gruppi alleati, che – un po’ per celia, un po’ per non morir – hanno tentato in vari modi, sempre inutilmente, di essere presi in considerazione.
I contenuti del decreto sono noti: in particolare, il governo voleva “liberalizzare” il contratto a termine, avendo colto un interesse delle imprese (emerso dal monitoraggio sul primo anno di applicazione della legge Fornero) ad avvalersi di tale tipologia contrattuale se posta al riparo delle scorribande dei giudici del lavoro, sempre propensi ad interpretare il “causalone”, nonostante la sua genericità, in senso favorevole alla stabilizzazione dei lavoratori. Ma i principi vanno salvaguardati, l’anima deve essere salva. Se abbandonano la retta via perché costretti dalle contingenze politiche, devono contestualmente ribadire che “loro” non hanno cambiato linea, ma conoscono ciò che è giusto anche se sono costretti a derogarvi. Così, hanno voluto mettere i puntini sulle i, introducendo nel testo una norma volta a chiarire le finalità dell’intervento normativo d’urgenza e il contesto in cui si inserisce: la semplificazione dei contratti a termine è volta a fronteggiare – è scritto – la perdurante crisi occupazionale e interviene nelle more dell’adozione di provvedimenti di riordino complessivo delle forme contrattuali (il richiamo si intende al disegno di legge delega presentato dal Governo al Senato il 3 aprile 2014 – AS 1428), fermo restando che il contratto di lavoro a tempo indeterminato continua a costituire la forma comune di rapporto di lavoro.
Il senso è più o meno il medesimo che si ritrova esposto nelle finalità della legge n. 92/2012 all’articolo 1: «l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili e ribadendo il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato, cosiddetto “contratto dominante”, quale forma comune di rapporto di lavoro […] contrastando l’uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità progressivamente introdotti nell’ordinamento con riguardo alle tipologie contrattuali». È sparita la definizione di “contratto dominante” mentre è rimasta quella che evoca la “forma comune”. Ma se questa è la realtà (e lo è, se sappiamo distinguere nelle statistiche i dati di stock da quelli di flusso), che bisogno c’è di proclamarla ad ogni piè sospinto, come se fosse necessario ribadire in ogni occasione un atto di fede nel solo lavoro che può conferire dignità alla persona: quello a tempo indeterminato, appunto.
Analoghe considerazioni possono essere fatte a proposito di altre “correzioni” apportate in Commissione al decreto n. 34. Sappiamo che la “liberalizzazione” per tutti i 36 mesi di possibile durata di un contratto a termine per la medesima attività e con lo stesso datore è in qualche modo compensata dall’introduzione di un tetto del 20% da calcolare con riferimento ai soli lavoratori assunti a tempo indeterminato dallo stesso datore di lavoro (e non, genericamente, all’ “organico complessivo”) e che il conteggio va riferito a quelli in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione. Ma perché penalizzare i datori di lavoro, con l’obbligo di assumere a tempo indeterminato gli eventuali lavoratori eccedenti? Come se dare un posto di lavoro in più, sia pure a termine, fosse un’azione malvagia, da punire come tale. Vogliamo essere facili profeti? Come dovranno essere considerati gli apprendisti in organico il 1° gennaio? Potranno essere inclusi nella base di riferimento essendo quella tipologia contrattuale a tempo indeterminato oppure prevarrà il criterio della stabilità che di solito non viene riconosciuta agli apprendisti prima della conferma, al termine di quel particolare rapporto? Già ci immaginiamo una giurisprudenza oscillante che indurrà le imprese ad essere guardinghe e ad assumere qualche unità in meno di quelle che sarebbero necessarie.
Passando all’altro tema, quello dell’apprendistato, appare del tutto evidente che si è voluto salvare un simbolo di quella formazione che viene svolta all’esterno dell’azienda. L’obbligo per il datore di lavoro di integrare la formazione aziendale (on the job) con la formazione pubblica (obbligo escluso dal testo originario del decreto-legge, che configurava una mera facoltà in capo al datore di lavoro) è stato reintrodotto a condizione che la Regione provveda a comunicare al datore di lavoro le modalità per fruire dell’offerta formativa entro 45 giorni dall’instaurazione del rapporto di lavoro; pertanto, decorso tale termine il datore del lavoro non è più tenuto ad avvalersi della formazione pubblica. Ciò significa che vi saranno trattamenti diversi perché non tutte le Regioni saranno in grado di produrre questa offerta formativa nei tempi previsti. È stato, poi, reintrodotto l’obbligo di redigere in forma scritta il piano formativo individuale, sebbene in forma semplificata. Tale scampolo di piano formativo è inserito, in forma sintetica, all’interno del contratto di apprendistato, e può essere definito anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali. Siamo onesti: si può considerare un vero e proprio piano formativo questo così delineato, oppure si tratta di un modo per difendere un principio anche a costo di vanificarne la portata pratica, giusta o sbagliata che sia?
Le medesime valutazioni potrebbero essere svolte a proposito di altri aspetti del decreto, come, per esempio, l’obbligo, per le imprese con almeno 30 dipendenti, di confermare almeno il 20% della precedente nidiata di apprendisti per poterne assumere dei nuovi. Eppure, un recente approfondimento di ADAPT ha dimostrato che tale problema è stato affrontato e risolto, in modo favorevole ai lavoratori, attraverso la contrattazione collettiva, tranne che nei settori dell’artigianato (che presumibilmente – visto il numero dei dipendenti richiesti per poter applicare l’obbligo – restano esclusi anche ora). Perché, allora, voler introdurre vincoli legislativi e non accontentarsi di un principio di sussidiarietà che ha funzionato? Prendiamo comunque atto che, anche con queste modifiche del testo iniziale, il decreto rappresenta comunque un passo avanti rispetto alla legge n. 92 del 2012. Poi attendiamo la lettura del Senato. Per fortuna, in Italia non hanno smantellato ancora il bicameralismo perfetto. Che Iddio ce lo conservi!
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus