Un amico psichiatra mi ha rappresentato, con una metafora, il suo punto di vista (professionale) sulla condizione umana. L’essere umano è come se fosse rinchiuso in una gabbia circolare di cui occupa una metà. L’altra è delimitata da una sottile barriera di cartongesso al di là della quale stanno, a sua insaputa, fameliche belve feroci. Da un momento all’altro le belve possono spazzar via la parete, saltare addosso al malcapitato e divorarlo. Per la persona che ha sofferto di una nevrosi o di un psicosi è come se si fosse aperta una fessura nel cartongesso da cui il nostro ha potuto scoprire l’esistenza degli animali feroci ed osservarne i movimenti senza essere visto. Ciò gli ha procurato e continua a procuragli un’acuta sofferenza, ma, paradossalmente, vive in una condizione di maggiore sicurezza di quella di coloro che non si sono accorti di nulla. Certo, se le belve irrompessero nella sua semicirconferenza potrebbe fare ben poco per difendersi. Ma almeno sarebbe preavvertito e consapevole della sorte che lo attende. Dove conduce questa premessa che qualcuno potrebbe considerare venata di un filone di follia?
Oggi parliamo dei sindacati italiani, delle grandi confederazioni che hanno contribuito a fare la storia del Paese nel corso del Novecento e che, adesso, a Duemila inoltrato, somigliamo molto a quelle persone che vivano tranquille nella parte di gabbia loro riservata e che non si danno cura di chiedersi che cosa mai ci sia nell’altra, anche se ogni tanto avvertono dei rumori sinistri. Magari, se anche si fosse aperta una crepa nel cartongesso si sarebbero affrettati a ripararla. Nel corso della loro storia, Cgil, Cisl e Uil hanno conosciuto dei “momentacci”, ma è difficile trovarne alcuni più duri di quello attuale, di cui sembrano allegramente inconsapevoli (è sufficiente leggere le dichiarazioni di Carmelo Barbagallo). Non si tratta solo di una crisi organizzativa (che, in altri tempi, è stata certamente più pesante), ma di un passaggio più grave e travagliato sul piano politico: il sindacalismo confederale sta correndo il pericolo – mortale per un sindacato – dell’irrilevanza.
L’apparato politico renziano (definiamo così il kombinat governativo-partitico-mediatico raccolto intorno al premier/segretario) ha dimostrato più volte, in questi diciotto mesi, che i sindacati sono “tigri di carta”, fino ad ora tenuti in piedi dal fatto di essere parti influenti dell’establishment del Paese, piuttosto che dalla forza autonoma che sono in grado di esprimere. Basti pensare che il Governo è in grado di intervenire con decreto legge (e con il favore dell’opinione pubblica) in una materia tanto delicata come l’esercizio del diritto di sciopero (e lo svolgimento delle assemblee sindacali) nei siti del patrimonio archeologico e culturale, mentre la Commissione Lavoro del Senato si appresta a discutere due disegni di legge (a prima firma di autorevoli esponenti come Maurizio Sacconi e Pietro Ichino) sull’astensione dal lavoro nei trasporti pubblici. Tutto ciò senza il minimo coinvolgimento (almeno sul piano sostanziale) dei sindacati, i quali, in passato, svolsero un ruolo fondamentale, attraverso forme di autoregolamentazione, nell’accompagnare i processi legislativi che condussero, all’inizio degli anni ’90, alle norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi essenziali. Come se non bastasse – alla faccia del primo comma dell’articolo 39 Cost. – nei giorni scorsi i sindacati hanno incassato, senza reazioni, le dichiarazioni al Corriere della Sera di Filippo Taddei – uno dei plenipotenziari di Matteo Renzi per l’economia e il lavoro – riferite alla riforma della contrattazione collettiva: «Di sicuro il governo non aspetterà in eterno. Il governo aveva detto di aspettare un accordo fra sindacati e imprenditori. Ma anche che, senza accordo, sarebbe intervenuto per legge». Paradossalmente, l’attuale Governo, pur essendo egemonizzato dal Pd, mostra, nei confronti del sindacato, una linea di condotta improntata ad una maggiore chiusura rispetto a quella dei precedenti esecutivi di centro destra, i quali tendevano ad inserirsi e ad ingrandire la divisioni aperte tra le confederazioni, privilegiando (a volte anche teorizzando) il rapporto con la Cisl e la Uil ed alimentando l’auto-isolamento della Cgil.
Per l’attuale Governo sembra esistere solo la Cgil, ma non come alleata, ma come avversaria politica, appartenente al “piccolo mondo antico” di quella sinistra che, agli occhi di Renzi, rappresenta la sua più insidiosa deriva. In buona sostanza, dunque, il sindacalismo confederale è stato privato (e ne soffre) del suo DNA costitutivo: la simbiosi con i grandi partiti. A voler ricorrere a un paragone mitologico, potremmo definire il movimento sindacale di oggi una specie di “Atlantide rovesciata”: all’opposto del continente misteriosamente inghiottito dai flutti, da noi è stato sommerso dalle acque tutto il resto. Il sistema politico dell’immediato dopoguerra, rimasto immutato durante la Prima Repubblica (sistema di cui il sindacato era proiezione organica), è scomparso; ma il sindacato è ancora lì, sostanzialmente uguale a prima e al “se stesso che fu”. Ora però è solo su di un terreno sconosciuto. Non ha più l’anima di un’ideologia. Non è un caso che la Fiom di Maurizio Landini sia alla ricerca di una nuova prospettiva politica. Ammesso e non concesso che ce ne siano di disponibili.
Membro del Comitato scientifico ADAPT
Docente di Diritto del lavoro UniECampus