Un leader sindacale di altri tempi soleva dire che il suo punto di riferimento era il negoziante da cui acquistava il cibo per i suoi cani (dal momento che, essendo “povero di spirito”, era anche cacciatore). Queste sue affermazioni, sostenute da una convinzione che rasentava l’arroganza, lo facevano apparire ai nostri occhi per quello che effettivamente era: un personaggio inadeguato al ruolo che svolgeva perché non si va a trattare con il governo sui problemi del Paese sulla base delle indicazioni del “canaro” sotto casa.
Eppure, proprio in questi giorni ci siamo imbattuti nell’intervista di un certo Francesco Nicodemo che sarebbe, niente meno, il responsabile della comunicazione nella nuova segreteria del Pd (“Spunta il sole, canta il gallo, Matteo Renzi va a cavallo!”). Sapete chi è il punto di riferimento di questo signore? Bill Clinton? Tony Blair? Barack Obama? Stefano Rodotà? Pietro Ichino? Harry Potter? Sbagliato. Nicodemo si confronta con Paolo, il barista di S. Giovanni a Teduccio perché «ascoltare i suoi commenti… ti mette a contatto con il sentire comune».
Ci sentiamo autorizzati a suggerire, allora, che le politiche del lavoro di Giamburrasca Renzi siano sperimentate nel bar del signor Paolo quando dovrà assumere dei camerieri per il servizio ai tavoli nel giorno della festa del Santo Patrono (vista la grande l’affluenza) o se vorrà avvalersi di un esperto per “mettere in rete” la sua azienda. Gli vadano a spiegare che la band of brothers del sindaco-segretario ha in mente di disboscare talune forme di flessibilità (che non sono 40) per aprire – come è scritto nell’ eNews 381 – un «processo verso un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti».
Noi non conosciamo Paolo, ma immaginiamo la faccia che farebbe e le domande preoccupate che rivolgerebbe al suo interlocutore. Ci sentiamo solidali con il barista d’antan non per un afflato dell’animo, ma perché anche noi – che un po’ di diritto lo mastichiamo – non riusciamo a capire dove andrà a parare il Job Act a questo proposito. Di solito, infatti, gli istituti giuridici hanno un solo significato: i concetti sono espressi attraverso le parole e cambiano con il mutare di esse e della loro combinazione. Così, rispetto a quanto si è copiosamente scritto in tema di “contratto unico” nei giorni scorsi abbiamo notato che nell’eNews 381, è sparito, dopo il sostantivo “contratto” l’aggettivo “unico” e si sono aggiunte, al suo posto, le parole di “inserimento”.
Verrebbe da dire che si è fatto un passo importante in direzione di una maggiore chiarezza essendo balzana l’idea di un contratto unico che sia in grado di assorbire e regolare tutti i rapporti di lavoro. Bisognerà pure dirla la verità! Al di là degli abusi (che esistono e che vanno combattuti) i c.d. contratti atipici sono rivolti a regolare nel modo più appropriato situazioni lavorative specifiche che, in assenza di disposizioni particolari, resterebbero confinate nel lavoro sommerso. Tutti i teorici dell’unicità di un nuovo contratto a tempo indeterminato sono pronti a sottoscrivere (perché sono persone serie) che, a loro avviso, il nuovo istituto non sostituirebbe il contratto a termine, la somministrazione, il lavoro a chiamata e quant’altro è già passato sotto le “forche caudine” della legge Fornero.
Poi si vogliono ammazzare del tutto le collaborazioni o il lavoro in partecipazione? Non ne vediamo l’esigenza, ma non ne faremo un dramma. Ci limitiamo soltanto a ricordare che l’ultimo governo Prodi si accanì contro lo staff leasing a cui tutti oggi riconoscono di essere una forma di flessibilità “buona”. La sostanza, però, non cambia. Gira e rigira, il sarchiapone di superRenzi altro non può essere se non un contratto a tempo indeterminato che, nella fase iniziale (anni? mesi?), sia sottoposto ad una normativa meno invasiva per quanto riguarda la risoluzione del rapporto.
In tal senso, sarebbe sicuramente un passo in avanti demolire ancora un po’ l’articolo 18. Ma se ci fermassimo a considerare non solo la forma, ma anche la funzione degli istituti giuridici (seguendo l’insegnamento di Gino Giugni) verrebbe fatto di domandarsi se obiettivi analoghi non siano già conseguibili nell’ordinamento vigente attraverso il contratto di apprendistato oppure per mezzo di un contratto a termine a cui sia riconosciuta un’acausalità più lunga dei dodici mesi attuali. O addirittura tirando oltre misura il collo al periodo di prova.
Certo – ce ne rendiamo conto – conquistare una norma che sancisca, per un certo numero di anni, soltanto una tutela di carattere risarcitorio contro il licenziamento illegittimo (fatti salvi i motivi discriminatori sempre sottoposti a salvaguardia di carattere reale) sarebbe una novità significativa.
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT