Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Jobs Act 2.0. I dolori del giovane Werther (Renzi)

Jobs Act Poletti 2.0. Concluso in Commissione Lavoro della Camera il rituale delle audizioni, inizierà nelle prossime ore quello, altrettanto rituale, della discussione generale per passare, poi, alla fase più delicata ed importante della presentazione degli emendamenti. Queste procedure si muovono, tuttavia, su di un tapis roulant, che riceve i propri impulsi dall’esterno di Palazzo Montecitorio. Sarà il premier-segretario a dare l’input decisivo e lo farà – immaginiamo – tenendo conto di quanto avviene nel Paese, a partire dallo sciopero generale proclamato dalla Fiom (che potrebbe influenzare, forzandola, la linea di condotta della stessa Cgil, ormai egemonizzata dalla sua bellicosa federazione di categoria); ma soprattutto di quanto conviene all’immagine e alle prospettive del Governo.

 

Difatti, quello che Camusso, Landini e compagnia cantante non riescono a comprendere è che lo svolgimento di uno sciopero generale darebbe, sui mercati internazionali, un credito – maggiore di quello che esse meriterebbero – ad una manovra di bilancio e ad una legge di riforma del lavoro discutibili da diversi punti di vista.

 

Non a caso, alla Camera, la sinistra Pd, nelle sue componenti più ragionevoli, sta usando la forza dei propri numeri (in Commissione e in Aula) non per bloccare la riforma, ma per trattare con il Governo, facendo propria (e cercando di introdurla nella delega) la posizione racchiusa nei punti votati dalla Direzione del Pd il 29 settembre (il solo che interessa, poi, è il punto 4, quello che riguarda il licenziamento), magari corroborando la ricerca di un’intesa con lo stanziamento di qualche decina di milioni in più sugli ammortizzatori sociali. Per comodità di esposizione riportiamo di seguito il testo fatidico del punto 4:

«Una disciplina per i licenziamenti economici che sostituisca l’incertezza e la discrezionalità di un procedimento giudiziario con la chiarezza di un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità, abolendo la possibilità del reintegro.

Il diritto al reintegro viene mantenuto per i licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare, previa qualificazione specifica della fattispecie».

 

Non c’è dubbio; al di là degli ambiti di applicazione, si tratterebbe di una norma molto più chiara – per quanto riguarda i principi e i criteri direttivi – di quella dozzina di parole che definiscono, nel testo votato dal Senato, «il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio».

 

È interessante notare che cosa scrive il Servizio Studi della Camera nelle Schede di lettura del AC 2660, mettendo in relazione quanto indicato a proposito della semplificazione delle tipologie contrattuali con la delega sul recesso (infatti, i due aspetti si tengono insieme nella mediazione politica sottesa all’operazione Jobs Act Poletti 2.0.).

«Si fa preliminarmente presente che i principi e criteri direttivi di cui alle lettere a) e c) non paiono definiti in termini puntuali, lasciando ampia discrezionalità al Governo ai fini della loro traduzione normativa nei decreti delegati. Per quanto concerne la lettera a) i principi e criteri della delega non forniscono espresse indicazioni, né in ordine alle forme contrattuali sulle quali intervenire[1], né in relazione agli interventi di riordino da operare su ciascuna di esse; sulla base di una interpretazione sistematica, l’unico limite sembrerebbe derivare dal richiamo, all’interno del disegno di legge, ad interventi di regolamentazione del contratto di collaborazione coordinata e continuativa[2] e del lavoro accessorio[3], ciò da cui può desumersi la volontà del legislatore di non addivenire, comunque, ad un integrale “superamento” di tali forme contrattuali. Per quanto concerne la lettera c), non appare chiaro se la norma prefiguri l’introduzione di una nuova tipologia contrattuale (o, invece, la modifica delle tutele previste dalla normativa vigente per l’attuale contratto a tempo indeterminato, sebbene in relazione alle sole nuove assunzioni); né è precisato in modo espresso il contenuto delle “tutele crescenti”, anche con riferimento alla loro natura obbligatoria o reale».

 

A maggior prova della inconsistenza della tesi per cui sia pacifico ritenere che il concetto di “tutele crescenti” evochi necessariamente delle sanzioni di carattere soltanto risarcitorio.

 

In ogni caso, sul percorso futuro del provvedimento pendono decisioni di natura squisitamente politica. A parte l’esigenza di tener conto delle posizioni degli alleati di Governo che – incautamente – confidano di avere più spazi di manovra, quando verrà il momento del decreto legislativo, nell’ambito di una delega che sia la più lasca possibile, Matteo Renzi valuterà se gli convenga sottoporre il Jobs Act ad una terza lettura a Palazzo Madama. Una nuova lettura che potrebbe essere evitata unicamente blindando il testo del Senato, a Montecitorio, con il voto di fiducia: una mossa rischiosa, ma nelle corde del premier, soprattutto se decidesse di arrivare al redde rationem con i suoi avversari nel mondo variopinto ed inquieto della gauche politica e sindacale.

 

Intanto, tra le forze di maggioranza (e dintorni) sembra acquisito che, nel licenziamento economico, non potrà che esservi una tutela di natura risarcitoria. Resta aperta la questione – delicata – del licenziamento disciplinare. Per affrontare con equilibrio ed equità questa fattispecie sarebbe il caso di introdurre nel dibattito in corso due aspetti già previsti dall’ordinamento giuridico. Il primo: ogni sanzione disciplinare – compreso il licenziamento per giustificato motivo soggettivo – è sottoposta ad una procedura preventiva che consente al lavoratore di far valere le proprie ragioni. Se, nonostante questa forma di garanzia, il datore arriva ugualmente al licenziamento vi devono essere dei motivi particolarmente gravi, l’accertata insussistenza dei quali, in una successiva fase di giudizio, richiederebbe comunque una tutela forte, senza escludere neppure la reintegra, per evitare la quale, mutuando dal diritto tedesco, il datore dovrebbe dimostrare che si è determinata un’impraticabilità, di natura fiduciaria e personale, nel proseguimento del rapporto. L’altro aspetto da tener presente riguarda la possibile estensione al licenziamento disciplinare nel mondo del lavoro privato delle fattispecie indicate, per questo stesso istituto, nell’art. 55-ter del d.lgs. n. 161/2001 in materia di pubblico impiego.

 

Un’ultima considerazione può riferirsi al dubbio di incostituzionalità della norma sul licenziamento nel testo del Senato, a causa dell’estrema genericità dei principi e dei criteri indicati. Nelle Schede di lettura riguardanti l’AC 2660, il Servizio Studi della Camera fa notare che, una volta approvata una delega generica, non sarà certo sanzionabile il decreto legislativo che da essa deriva. Il decreto potrebbe subire una censura dalla Consulta se esorbitasse dal perimetro della delega; ma poiché essa non ha perimetro, il problema non sorge neppure. A subire un giudizio di incostituzionalità dovrebbe essere la norma primaria. Ma ciò è avvenuto una sola volta nel corso di tutta la storia della Repubblica (sentenza Cost. n. 280 del 2004) e non in materia di lavoro.

 

[1] Dall’utilizzo dell’espressione “forme contrattuali”, senza ulteriori specificazioni, sembrerebbe doversi desumere che gli interventi di riordino del legislatore delegato possano riguardare non solo le forme contrattuali c.d. flessibili (ossia riconducibili al lavoro parasubordinato: lavoro a progetto; lavoro accessorio; somministrazione di lavoro; lavoro intermittente; lavoro ripartito e associazione in partecipazione), ma anche forme contrattuali riconducibili al lavoro dipendente (contratto a tempo indeterminato; contratto a termine; apprendistato).

[2] Al comma 2, lettera b), n. 3, si prevede, nell’ambito dell’universalizzazione dell’ASpI, la sua estensione ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa; al comma 7, lettera g), si prevede l’introduzione del compenso orario minimo, da applicare anche ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.

[3] Al comma 7, lettera f), si prevede l’introduzione di norme per estendere il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

 

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