Chiamato a “gestire”, nella passata legislatura alla Camera, la riforma del mercato del lavoro del ministro Elsa Fornero (che poi è diventata la legge n.92/2012 a seguito di modifiche parziali ma significative del Parlamento) per mesi mi sono chiesto chi mai avesse consigliato il Ministro nel formulare le norme riguardanti i rapporti di lavoro con tratti che non si limitavano a negare la realtà ma finivano anche per fare a pugni con la ragionevolezza. E, soprattutto, erano ispirati, nei confronti del mondo delle imprese, ad una visione inaccettabile e sbagliata, obbedendo ad un’unica logica: quella di colpirne migliaia con clausole vessatorie allo scopo di “educarne” una (è questo il rapporto tra chi rispetta le regole e chi no). Probabilmente, avevo pensato, si sentiva oltre misura la mano dei servizi ispettivi, i quali, per esperienza professionale, sono abituati a vederne di tutti i colori e a confondere la patologia con la fisiologia, essendo stati formati nella convinzione che esista un solo rapporto di lavoro corretto – quello a tempo indeterminato – nonostante che, in giudizio, l’Inps perda gran parte delle cause intentate a proposito della natura dei rapporti lavorativi.
Gli effetti di quelle norme si sono espressi in pratica nel tempo che ci separa dal 18 luglio 2012: per assumere, le imprese si sono gettate a capofitto in quello scampolo di liberalizzazione (la mancanza di causale per il primo rapporto nell’arco di 12 mesi) che la legge n. 92/2012 ha riconosciuto ai contratti a tempo determinato, i quali hanno finito per “cannibalizzare” non solo (e ancora di più) le assunzioni, ma pure quelle forme atipiche, meno onerose, ma divenute più rischio di sanzione dopo la riforma. Ciò di cui ancora non riesco a capacitarmi, tuttavia, è la nuova normativa in materia di licenziamenti (il Parlamento fu interdetto a modificarne il testo iniziale concordato non si sa bene con chi). Si dice che a suggerire la nuova disciplina sia stato un giuslavorista tra i migliori della sua generazione. Io mi chiedo come possa guardare in faccia i suoi studenti, condannati a leggere pagine e pagine di concetti incomprensibili. In questi mesi di ozio forzato – non avendo un cane da portare a passeggio ai giardini pubblici, ma solo tre splendide gatte a cui piace stare in casa – ho dedicato molto tempo allo studio del diritto del lavoro leggendo diversi manuali tra i più diffusi e “quotati”. Ho potuto apprezzare, di conseguenza, gli sforzi compiuti dagli autori per “organizzare” la materia secondo criteri logici. Mi sono ancor più convinto, però, che si tratti di un’operazione impossibile, perché la logica è come il coraggio: se manca, nessuno se la può dare. Nel nuovo articolo 18 (possiamo chiamarlo così?) è arduo trovare un senso compiuto: basti pensare – tanto per fare un esempio – al sistema delle sanzioni dove manca ogni criterio di proporzionalità a fronte delle differenti tipologie di licenziamento illegittimo. Sicuramente migliore è la parte relativa agli ammortizzatori sociali e all’introduzione dell’Aspi come istituto unitario a tutela della disoccupazione involontaria, la cui applicazione, a regime, dovrebbe interessare 1,5 milioni di soggetti in più (è un dato contenuto nel “monitoraggio” sulla legge Fornero curato dal Dicastero del lavoro).
Oggi, alla luce del jobs act (tanto per quanto riguarda il decreto n. 34 ora alla Camera, quanto il disegno di legge delega, presentato al Senato), mi chiedo chi siano i consiglieri di Matteo Renzi e di Giuliano Poletti. La questione mi incuriosisce perché – allo stato degli atti – il complesso di quelle misure (poi non è detto che il governo resista fino in fondo) sembrano pensate al solo scopo di creare una discontinuità se non persino una frattura con le idee e le proposte che, in ambienti “politicamente corretti”, andavano per la maggiore come se fossero il distillato dell’eccellenza del riformismo. Della nuova disciplina dei contratti a termine si è già detto e scritto. Se il numero delle proroghe si ridurrà da 8 a 6 non sarà un problema: l’importante è che il governo resista sui 36 mesi, perché in questo modo vi sarà una coincidenza temporale tra la possibile durata di un’assunzione a termine e il venir meno del vincolo dell’acausalità. E quindi le assunzioni a termine saranno “acausali” e sfuggiranno così alla roulette russa dei tribunali. Questo punto mi sembra più importante del superamento di quella specie di “imponibile di manodopera” prevista in materia di apprendistato, dal momento che la contrattazione collettiva ha affrontato e risolto il problema spesso con vincoli di assunzione più elevati di quelli sanciti dalla legge n. 92. Al dunque, una riforma del contratto a termine come quella prefigurata nel decreto finirebbe per fare di questa forma contrattuale il modello standard nelle assunzioni, perché nessun datore di lavoro sensato utilizzerebbe il sarchiapone del contratto unico (per ora confinato nella delega), ancorché depotenziato nei primi anni di validità, per quanto riguarda la tutela del licenziamento. Il disegno di legge delega, poi, non sembra entusiasmarsi troppo per il suddetto istituto, intorno al quale hanno danzato, ognuno con la sua proposta, i maitres à pénser della cultura giuslavoristica dominante. Si direbbe quasi che, a stare al testo della delega, questo contratto potrebbe diventare, non già quello destinato a prevalere e ad infilzare il drago della precarietà (purtroppo resiste la zavorra della riduzione delle forme contrattuali come se ognuna di esse non avesse uno scopo ben preciso nel regolare al meglio particolari situazioni lavorative), ma finirebbe per rassegnarsi ad essere soltanto una tipologia in più, per giunta sottoposta “eventualmente a sperimentazione”.
Il criterio della sperimentazione è previsto – opportunamente – anche per le altre innovazioni che la delega intende introdurre: dal salario minimo all’ampliamento dell’applicazione dell’Aspi. Se mettiamo a confronto, allora, le proposte del jobs act (attente alle esigenze delle imprese) con la cultura del sospetto che stava alla base delle norme contenute nella legge Fornero non possiamo ignorare – pur con tanti limiti evidenti – l’esistenza di una differente visione del mondo e dei rapporti sociali.
Membro del Comitato scientifico ADAPT